Quando nel 1971 Emerson, Lake and Palmer proposero al pubblico una loro rielaborazione di Pictures at an Exhibition, composizione pianistica di Musorgskij, i puristi bigotti, sacerdoti della tradizione classica, rimasero inorriditi, gridando allo scandalo. Non si capacitavano che tre rockettari potessero infrangere il tabù e presentare una loro interpretazione del capolavoro di musica classica, fino ad allora territorio degli interpreti accademici.
Del resto molti fan della band rimasero sconcertati da questa virata classicista dei loro beniamini e, in non pochi, li criticarono aspramente. Né gli uni, né gli altri capirono l’importanza di tale operazione. Da un lato veniva strappata, dalle stantie mani degli interpreti ufficiali, un’opera che dimostrerà nuova vitalità riletta in chiave rock, dall’altro permetteva a folte masse di ascoltatori, decisamente ignoranti in musica classica, di accostarsi alla bellezza di un tipo di musica ritenuta ormai decotta e priva di possibili interpretazioni originali.
Il nuovo libro di Miro Renzaglia, Un popolo di debitori, edito dalla giovane, energica a vitale casa editrice Safarà, è così. Rompe nuovamente il tabù che vuole l’economia appannaggio dei soli soliti professoroni accademici, chiusi nelle loro cittadelle e incancreniti nelle loro caste sacerdotali, unici esperti, professionisti della materia. Professionisti che, detto en passant, con tutta la loro scienza, non sono stati capaci mai di fare una previsione attendibile.
Fornisce, con uno stile diretto, senza tante curve e distinguo da “cacadubbi”, una piattaforma su un mondo, quello dell’economia, che in troppi considerano alieno, noioso, ostico e fuori dal loro contesto vitale.
L’autore, che apertamente cita Ezra Pound come suo nume ispiratore, è poeta (oltre a molto altro) che, come il grande americano, è incuriosito dall’economia e da come certi suoi meccanismi siano poi alla base della nostra vita, modificandone la visione e deformando la nostra libertà. Dilettante (nel senso che questo è il suo diletto), autodidatta (come lui stesso si definisce) reinterpreta e racconta la materia, assemblando, proprio come in Pictures at an exhibition, in un cammino unitario, una serie di quadri che fotografano aspetti diversi dell’economia.
Che si parli di interessi zero, quelli che ci vengono spacciati per tali, che si parli di consumo, di BCE, della truffa delle agenzie di rating, di capitalismo, di IRI, l’autore, come acutamente viene segnalato nella prefazione di Ivan Buttignon, offre a tutti un testo che, scevro da qualsiasi pregiudizio, non deformato nel suo percorso da nessun torcicollo ideologico e da nessuno scarto teso a recuperare il tracciato da altri delineato, smantella i falsi pregiudizi: “è proprio ciò che Miro Renzaglia propone in questo vero e proprio manuale di sopravvivenza economica. Armato di un gigantesco martello, demolisce una ad una le cornici che condannano la nostra vita a seguire un solo pensiero. Quello unico”.
Ma l’uso del martello citato farebbe pensare ad un furioso iconoclasta, ricolmo dell’ira di Thor pronto a spazzare via tutto con il suo Mjöllnir, il maglio frantumatore.
Così non è.
Capitolo per capitolo vengono offerti, in modo chiaro, preciso, chirurgico, i dati di fatto, le connessioni tra di loro, i possibili rimedi che l’autore predilige e che offre al lettore proprio per chiarezza, per non nascondersi dietro a niente ma offrendosi trasparente al suo giudizio. Così quando si parla di capitalismo, non a caso intitola il capitolo “Capitalismo & Capitalismi”, proprio perché non ha nessuna intenzione di compiere la facile scelta di “buttare via il bambino con l’acqua calda”, non vuole spezzare la cornice che altri, edulcorandola, hanno edificato, vuole invece, con il suo bisturi tagliente, staccare con precisione la carne sana dalla metastasi.
Con una lunga citazione da Lenin e con la sua successiva lettura destrutturata, ricostruita e attualizzata ci offre materiale a supporto e ci invita alla riflessione, offrendoci anche uno “spaccato” del suo metodo d’approccio ai precursori.
È così che distingue il capitalismo produttivo da quello finanziario, schierandosi dalla parte di quell’esperimento, definito di capitalismo sociale, che vide la sua nascita con l’affermarsi di Adriano Olivetti ad Ivrea e che rapidamente declinò quando, a seguito della morte prematura dell’imprenditore, nessuno seppe raccoglierne degnamente l’eredità.
La sua foga non si trasforma mai in ira cieca, in odio belluino, ma fluisce in sano dialettico furore, nell’incedere dell’argomentazione che si fa sottile perché si tempera in una ironia contenuta, misurata, da cui fa capolino, talvolta, un sarcasmo che è rabbia sublimata.
È il poeta all’opera, con la sua entusiastica volontà di rappresentare, con la sua visione che si fa chiara quando cesella le parole, quando scarnifica il blocco di marmo e con il suo bulino traccia forme che delineano come un solco sempre più profondo i contorni del senso della sua opera.
Gli esempi di questa acutezza nel delineare non mancano. Come ad esempio nel capitolo “La casa e il suo rovescio. Fra appartamento, appartenenza e speculazione finanziaria”, dove la casa in cui si abita o meglio l’appartamento ed il suo etimo, fatto risalire all’appartarsi, permettono pensieri concentrici che passano attraverso considerazioni come “ ci si apparta, infatti, per tornare ad appartenere” su cui si fonda il vivere di comunità, per approdare ad una serie di osservazioni sui barboni divisi in due categorie “quelli che la casa l’hanno persa e quelli che alla casa hanno rinunciato” che aprono il fianco al senso che noi tutti abbiamo della casa vista come bene irrinunciabile e a un inquietante quesito messo lì per la nostra riflessione.
Un popolo di debitori sarà pure un manuale di sopravvivenza economica, sarà pure un saggio agile di un autodidatta d’acuto ingegno, sarà pure un libro che parla di economia, ma è in primo luogo un’opera letteraria.
Anche se questo senso è esplicito fin dalle prime pagine (in cui le citazioni rimandano più a riferimenti letterari che economici), per averne la certezza bisogna arrivare al capitolo “Come imparare la neolingua finanziaria in una lezione”, una piccola gemma incastonata nel testo, in cui viene enucleata e descritta, in maniera ironica, a partire dalle schegge anglofone che la costellano, una lingua infernale, incomprensibile, un idioma di Mordor che attesta la visionarietà del poeta che sa usare i cascami, i rifiuti, l’immondizia per coniare un mondo e per riproporre, nudo e crudo, il senso vero che emana da quella putredine.
Non possiamo che essere d’accordo con chi sostiene che l’economia è materia troppo importante per essere raccontata dagli economisti. Bisogna lasciarla ai poeti.
* Un popolo di debitori di Miro Renzaglia, pp.100, euro 10, editore Safarà