Ricordare la Prima guerra mondiale, come avviene in questi mesi, e sicuramente anche l’anno prossimo, quando cadrà il centenario (1915-2015) dell’entrata in guerra dell’Italia, è un dato positivo: si richiama un pezzo di storia fondamentale per la nostra nazione. Si parla della vita di trincea, della preparazione militare, degli errori dello Stato maggiore in occasione della disfatta di Caporetto (generali Cadorna, Capello e… Badoglio) così ben descritta, dal punto di vista militare, ma anche umano, da Ardengo Soffici in La ritirata del Friuli (Vallecchi editore) e da Malaparte in La rivolta dei Santi maledetti (Vallecchi editore) nel quale lo scrittore pratese attaccò violentemente l’insipienza della classe politica e dei vertici militari del tempo affermando che i migliori erano stati i “santi maledetti”, i fanti, coloro che avevano svolto anche funzioni da carne da cannone insieme agli ufficiali subalterni mentre lo Stato maggiore, con i vertici militari, preparavano attacchi e ritirate stando al sicuro nelle retrovie.
Una grande importanza ebbero questi soldati per l’esito della guerra ma anche, se non soprattutto, per il ruolo svolto in eventi storici degli anni immediatamente successivi al primo conflitto mondiale.
Fra questi fatti storici spicca la vicenda di Fiume, per forza intrinseca e come capitolo di styoria che mostra l’incapacità dei politici e dei diplomatici italiani nel condurre le trattative con gli altri vincitori. Lo scrittore e “uomo d’arme” Gabriele D’Annnunzio guidò 2.600 soldati ribelli del Regio esercito Italiano, esattamente i Granatieri di Sardegna, insieme con altri volontari, da Ronchi dei Legionari, vicino Monfalcone, fino a Fiume, città che D’Annunzio proclamò annessa all’Italia il 12 settembre 1919.
In spregio verso la Società delle nazioni e il governo italiano che osteggiava l’azione di D’Annunzio, questi fondò il libero Stato di Fiume. Fu approvato il Trattato di Rapallo, il 12 novembre 1920, con il quale Fiume fu trasformata in uno Stato indipendente. Dal canto suo, D’Annunzio reagì proclamando la Reggenza Italiana del Carnaro.
Fiume fu una città molto viva e vivace in quel breve periodo come ha mostrato lo storico Giuseppe Parlato che ha analizzato, in Mezzo secolo di Fiume (edizioni Cantagalli, Siena), la società fiumana e lo sviluppo dell’economia locale dimostrando, con dati alla mano, che Fiume fu un vero e proprio inedito laboratorio politico con profonde innovazioni istituzionali e sindacali che, attraverso la Carta del Carnaro, si sostanziarono in un esperimento rivoluzionario. Parlato analizza un aspetto inedito: la vita e l’economia dal benessere del periodo ungherese al pesante blocco economico imposto alla città durante la presenza di D’Annunzio, dall’annessione all’Italia fino alle difficoltà del dopoguerra.
Ma perché nacque la Reggenza italiana del Carnaro? Andiamo con ordine. Il 24 dicembre 1920l’esercito italiano attaccò la città e allontanò i legionari fiumani. Da anni gli italiani, che rappresentavano più della metà della popolazione fiumana, avevano sollecitato l’annessione all’Italia e nell’aprile del 1919 Giovanni Host-Venturi e Giovanni Giuriati avevano costituito una Legione fiumana composta da volontari che avevano lo scopo di difendere i fiumani dal contingente francese, apertamente filo-jugoslavo. Come andò a finire è noto. Il governo Nitti disconobbe l’azione del Vate e nominò commissario straordinario per la Venezia Giulia il generale Pietro Badoglio che ordinò a D’Annunzio di ritirarsi e abbandonare Fiume.
D’Annunzio non prese in considerazione l’ordine di Badoglio e dopo varie tensioni, anche all’interno di Fiume, dove c’erano italiani che volevano l’annessione all’Italia e italiani che volevano la proclamazione di indipendenza e di autonomia, il 12 agosto 1920, per porre fine alla fase di stallo, D’Annunzio proclamò l’indipendenza (il governo Nitti era contrario all’annessione di Fiume all’Italia in ossequio alla volontà di Usa e Francia). Il Vate nominò il nuovo Stato Reggenza italiana del Carnaro e poco dopo varò la Carta del Carnaro.
Il 24 dicembre, poiché si protraeva la fase di stallo, la Marina militare italiana bombardò Fiume: si accesero furiosi scontri con morti da ambo le parti. Fu il “Natale di sangue”, dopo il quale per le difficoltà interne e per l’opposizione dello Stato italiano, D’Annunzio si dimise dalla carica di comandante di Fiume. C’era una forte spinta verso l’autonomismo nella città. Nel 1921, alle elezioni che si tennero a Fiume, vinsero gli autonomisti. Tre anni dopo, nel 1924, Mussolini annesse definitivamente Fiume all’Italia.
Ma al di là della storia, dei saggi storici, di particolare rilievo, per comprendere gli avvenimenti di Fiume, la vita degli arditi e dei volontari ma soprattutto il clima vissuto in presa diretta, non c’è che da leggere le testimonianze del tempo. Sono le esperienze che meglio dimostrano gli aspetti psicologici e militari dei volontari, le speranze, lo sprezzo del pericolo in nome di valori e ideali vissuti quotidianamente.
Di recente, la Aga editrice di Milano, ha ripubblicato testi di protagonisti di quelle giornate, di uomini che hanno fatto la storia vivendola e testimoniando, nell’Italietta liberale dei primi del Novecento, che non era certo una potenza geopolitica, lo sprezzo verso il pericolo, la volontà politica, il senso della comunità e del cameratismo professati da ragazzi e giovani uomini sempre pronti a pagar di persona. Insomma, per molti di loro, l’esperienza di Fiume si tradusse nell’incarnazione del milite politico, in una sorta di prosieguo della prima guerra mondiale, visto che l’incapacità dei politici e dei diplomatici italiani al tavolo dei vincitori non permise che l’Italia ottenesse concreti vantaggi, dopo tre anni di guerra e 650mila militari morti (senza contare quasi un milione di civili deceduti).
E così un protagonista della stagione fiumana, Léon Kochnitzky, belga di famiglia ebraica, in una bella opera riproposta dalle edizioni Aga (La stagione delle fiamme danzanti, pagg. 264, euro 22; www.orionlibri.net) narra l’esperienza vissuta in prima persona, lui, ammiratore dell’Urss e della rivoluzione russa, che combattè in prima fila per l’italianità di Fiume, lui, dannunziano ma in seguito in rotta con il Vate.
“La mia patria è laddove si combatte per l’idea” sottolinea in una puntuale ed equilibrata prefazione Maurizio Murelli nel presentare questo memoriale di Fiume che si giova di una postfazione di Massimo Maraviglia che efficacemente situa la narrazione, da un punto di vista “ideologico”, nel momento storico degli avvenimenti descritti. Ottima l’idea, peraltro, di inserire nel libro una vasta messe di note esplicative che consente di avere una visione completa e ampia delle vicende descritte.
Un diario che perfettamente rende l’atmosfera della Fiume “diciannovista”, pullulante di volontari e di artisti, di arditi, di libertari e libertini, rivoluzionari, avventurieri. Ma anche di progetti, di innovazioni, di una grande dimensione estetica che in seguito sarebbe stata ripresa dal fascismo, come ha sottolienato lo storico De Felice. Una nuova realtà, inedita, quindi, che vide in Kochnitzky colui che elaborò il progetto della Lega di Fiume, intesa come la Patria delle patrie, la città-Stato libera da oppressori e negata all’Italia dalle stesse nazioni che avevano combattuto la guerra insieme con gli italiani (gli Stati Uniti in primis e la Francia): una vittoria mutilata che alimentava l’irredentismo e il nazionalismo. Kochnitzky, innamorato dell’Italia e dei popoli oppressi, fece la sua conseguenziale scelta di campo.
Ma ci furono, a Fiume, anche figure minori, per il ruolo ricoperto, ma non meno coraggiose e con un animo ardente, sprezzanti del pericolo, come il piccolo Vittorio Montiglio. Atlantico Ferrari, suo amico di vecchia data, scrisse un libro a lui dedicato ora riproposto sempre dalle edizioni Aga (Vittorio Montiglio, l’eroe fanciullo, pagg. 186, euro 17). E’ l’occasione per conoscere un fatto minore della storia italiana e di Fiume ma importante, utile per comprendere la temperie del momento, i sentimenti di chi voleva difendere l’Italia, il senso di appartenenza a una comunità nazionale che la distanza e la vita non cancellano.
Infatti, Vittorio Montiglio nacque in Cile da genitori italiani nel 1903 e a 14 anni di età, falsificando i documenti, partì per l’Italia su una nave diretta a Genova imbarcandosi come mozzo. Giunto nel capoluogo ligure si presentò volontario al fronte dove si distinse e si guadagnò i gradi di ufficiale, divenendo, a 15 anni, il più giovane ufficiale dell’esercito italiano. In seguito, insieme ai due fratelli che combatterono nella prima guerra mondiale si diresse a Fiume per raggiungere Gabriele D’Annunzio dove chiese e ottenne di essere incorporato nell’”Ufficio colpi di mano”, un nome che era tutto un programma e che esprimeva benissimo lo spirito ardito dei volontari e il senso del dono di sé per il combattimento, per la causa, tenendo in conto da subito che avrebbero quanto meno rasentato la morte.
Montiglio non fa parte della grande storia ma di quella che la scuola degli Annales definirebbe “microstoria”, della storia delle mentalità. E infatti questo libro è davvero utile per comprendere lo spirito che animava questi combattenti, i semplici militi, queste anime che ardevano di passione e di gloria per le quali anche la propria vita era secondaria rispetto al fine che perseguivano. Seguì l’adesione al fascismo, la diffusione degli ideali fascisti prima in Italia e poi in Sud America, dove Montiglio assunse l’incarico di Ispettore dei fasci all’estero, formando varie sezioni dei fasci di combattimento fra Cile, Argentina e Brasile.
Se Kochnitzky era un raffinato intellettuale, Montiglio era un uomo d’azione e di fede, di quelli che, fedeli alla linea come a una fede, sono sempre pronti a lanciare il cuore oltre l’ostacolo, per dirla con i futuristi.
Ma il destino, a volte, segna l’esistenza. Quando non la spezza addirittura. E per Montiglio fu così: in una sera piovigginosa, il 9 novembre del 1929, era in auto con Atlantico Ferrari (l’autore del libro), Giovanni Battista Salina e i famosi piloti aerei Guido Keller e Dalmazio Gabrielli. Si stavano dirigendo a Villombrosa, e all’altezza di Otricoli, vicino Terni, l’auto sbandò e finì contro la spalletta di un ponte metallico: morirono Keller, Salina e Montiglio; rimasero illesi Ferrari, che era alla guida, e Gabrielli che sedeva accanto. Tre giovani vite di eroi spezzate in un banale incidente, dopo aver rischiato la vita decine di volte in guerra, durante gli anni dello squadrismo e a Fiume. Grande eco ebbe la loro morte. Montiglio, dopo una vita vissuta pericolosamente, chiuse gli occhi per sempre all’età di ventisei anni. Un busto in marmo a lui dedicato è a Roma, al Pincio.
Atlantico Ferrari due anni dopo scrisse due libri: uno dedicato al caro amico Montiglio e l’altro all’altrettanto caro amico Guido Keller, l’aviatore famoso per le sue beffe ai nemici, per aver vinto innumerevoli duelli aerei, per la sua vita “stramba”, per la sua zazzera e l’aria strafottente. Erano tutti eroi che vivevano con grande passione l’amore per la propria patria.
Il più famoso era certamente Guido Keller. Ribelle, dandy, vegetariano, salutista, futurista, ma soprattutto aviatore spericolato, Guido Keller era noto per le imprese eroiche compiute nella prima guerra mondiale che combattè nella 91ma Squadriglia da Caccia comandata dal famoso Francesco Baracca. Milanese, proveniva da una famiglia aristocratica di origine svizzera. Piccolo di statura, nervoso, scattante, con barba incolta e baffi alla moschettiera, capelli arruffati, sempre accigliato e beffardo, Keller era famoso per il coraggio e la grande perizia nella guida degli aerei. Riportò ferite gravi e tre medaglie d’argento in guerra. Portava sul proprio caccia in ogni operazione di guerra una copia dell’Orlando furioso di Ariosto e un servizio da tè.
A Fiume fu il segretario d’azione di Gabriele D’Annunzio e in seguito aderì al futurismo. A Fiume fondò il Gruppo Yoga con l’amico Giovanni Comisso, sodalizio dalle tendenze esoteriche e naturistiche e lui, unico ufficiale autorizzato a dare del tu a D’Annunzio, contrastò sempre l’ala reazionaria fiumana per incarnare quella più rivoluzionaria, più vicina al fascismo.
Quando il governo firmò il Trattato di Rapallo, nel 1920, Keller sorvolò il parlamento italiano e per disprezzo vi lanciò un orinale pieno di verdure. Fece circolare anche una foto in cui era seduto su un pitale ridendo beffardamente. Ed era solito dormire appollaiato su un albero, seminudo. Oppure prendere il sole completamente nudo. Più tardi aderì al fascismo, partecipò alla marcia su Roma.
Aveva 37 anni, quando quell’incidente d’auto lo uccise. La sua fu una vita tanto intensa quanto breve, vissuta tutta d’un fiato sebbene, specie negli ultimi anni, il suo spirito irrequieto lo portò lontano, per lunghi viaggi in Sud America. L’amico Atlantico Ferrari gli dedicò una biografia di grande interesse, ora di nuovo in libreria (L’asso di cuori, Aga ed., pagg. 230, euro 22).