Al ritorno dal lungo esilio negli Stati Uniti durato quasi vent’anni, Aleksandr Solzenicyn, tornato in Russia nel 1994, decise di dare alle stampe un pamphlet, tradotto in Occidente col titolo «Come ricostruire la nostra Russia? Considerazioni possibili». Lo scrittore Nobel di Arcipelago Gulag, pur esprimendo gratitudine agli Usa per averlo ospitato e protetto dalla persecuzione comunista, avvertiva che se «l’orologio del comunismo aveva cessato di marciare», la soluzione per la Russia non poteva essere nell’accettazione tout court del modello di società capitalistica di matrice anglosassone. E tratteggiò le basi filosofiche e morali, della nuova e antica Russia, partendo dalla lezione di quelli che indica come interpreti imprescindibili dello spirito russo e dell’ordine morale, Tolstoj e Dostoevskij.
Chiaro il riferimento al richiamo agli scritti politici di Dostoevskij, quelli della rivista il «cittadino» e al discorso su Puškin del 1880, laddove l’autore dei Fratelli Karamazovanalizza il rapporto fra élite e popolo. Dostoevskij si unisce a Puškin nella censura di quello che chiamano ceto dell’intelligencija, che «crede di stare di gran lunga al di sopra del popolo», responsabile di aver alimentato una «società sradicata, senza terreno» e ne fustiga il comportamento «svincolato dalla terra del nostro popolo».
Per capire la Russia di Putin, le sue dinamiche e ispirazioni, prescindendo da banalizzazioni che procedono per categorie prive di valutazioni storiche, vale il caso di soffermarsi sul pensiero di Aleksandr Dugin, forse il maggior ispiratore del nuovo nazionalismo russo e teorico di quella che è stata definita l’Eurasia. E risulta ancor più interessante se lo si fa con una guida particolare, il filosofo francese Alain de Benoist, che anima il saggio-intervista “Eurasia, Vladimir Putin e la grande politica” .
«Io sono russo», spiega Dugin, «non soltanto per le mie origini, ma per convinzione ideologica. Questo significa che vedo nella mia nazionalità un’identità storica, culturale, metafisica e quasi religiosa».
La cultura russa si è sempre divisa fra gli occidentalisti, come PiotrCiaadaev, Ogarev, Aleksandr Herzen, che ritengono che la Russia sia nata con l’occidentalizzazione degli slavi russi ad opera di Pietro il Grande, e gli slavofili, come Alexis Khomiakov, Constantin Aksakov o Ivan Kirevsky che insistono, invece, nell’individuare i pilastri della nazione nel patriarcato di Mosca e nell’unità della Chiesa ortodossa. Da questa seconda posizione deriva una visione della Russia, esterna all’Occidente, orientata all’originalità della sua cultura tradizionalista, in opposizione al razionalismo illuminista. Una visione propria dell’Impero zarista ma che finanche Stalin non disdegnò di richiamare quando si trattò di invocare l’unità contro l’invasore nazista.
L’identità russa autentica avrebbe in sé una dimensione «asiatica» e più esattamente turanica, richiama come atto di fondazione la sostituzione del Khan dell’Orda d’oro con lo zar, e si schematizza nella sovrapposizione della cultura slavo-finnica-turanica con quella kieviana. Lo storico George Vernadsky in un classico della storiografia Le origini della Russia, pubblicato dall’Università di Oxford negli anni ‘50, insiste sul mondo delle steppe che animò la «sfera culturale centro-asiatica», definendo il carattere della pra-rodina (patria) di questi particolari slavi.Ecco, dunque, che la visione euroasiatica riscopre Gengis Khan e lo rivendica.
L’Eurasia, nella definizione che ne danno i due autori geopolitici come Mackinder e Spykman, ripresa e ampliata da Dugin, sarebbe un’entità per vocazione in antitesi con la potenza «talassocratica e oceanica» degli Stati Uniti. L’Eurasia è la potenza della terra, quella che secondo le categorie di Carl Schmitt si contrappone alla potenza del mare.
Il dialogo fra Dugin e de Benoist si sposta spesso da un piano storico a quello più politico sugli esiti della società globale, il fallimento del turbo capitalismo, la solitudine degli individui. È centrale la domanda di Pietro Golia, che ha scritto la prefazione e curato l’edizione italiana del saggio: «Può il mondo uniformarsi a un solo modello politico, culturale, antropologico?». La rivoluzione bolscevica fu figlia dello stesso materialismo oggi egemone e che sembra aver fermato la storia.
La contrapposizione fra democrazia rappresentativa e democrazia organica, è il punto su cui Alain de Benoist centra la crisi della modernità, richiamando anche la teoria delle élite dell’economista italiano Vilfredo Pareto. Democrazia senza sovranità del popolo, dove la rappresentanza diventa solo un dato formale, perché priva di un’anima culturale e religiosa. Dugin rilancia questa visione affermando una concezione di democrazia intesa «come comunità metafisica e sovra-temporale di cui non fanno parte solo i viventi, gli antenati e i non ancora nati».
Dugin viene accreditato, da non pochi analisti, come il teorico, se non l’ispiratore dell’ultimo Putin, quello della riscoperta della storia sovietica e di una certa vocazione espansiva, come dimostra il caso Ucraina. L’intesa con de Benoist dimostra quanto Putin stia diventando un personaggio gradito a destra. Resta, però, aperto, insoluto dai due autori, il tema dell’occidentalismo, che non può prescindere dal valore della libertà a cui mercato e capitale – come insegna una lunga dottrina che va da Locke a von Hayek – hanno dato anima. (dal supplemento cultura Domenica del Sole24Ore)
* “Eurasia, Vladimir Putin e la Grande Politica” di Alexander Dugin e Alain de Benoist (Controcorrente, pp. 142, € 10,00)