Qualche giorno fa ho spiegato perché, a parer mio, Fratelli d’Italia – dopo aver ovviamente risposto “no” alla richiesta di fiducia – dovrebbe votare a favore del testo sulla riforma del mercato del lavoro, il cosiddetto “Jobs Act”.
Come immaginavo, ed auspicavo, la cosa ha suscito una serie di reazioni, e molti amici hanno legittimamente esposto le loro argomentazioni contrarie.
Alla luce di tutto quanto scritto, e ringraziando di cuore quanti hanno inteso prender parte al confronto, devo dire che confermo il mio pensiero e provo a rispondere alle tre principali aree di contestazione che mi sono state addotte.
1) Abbiamo detto “MAI CON LA SINISTRA”. Come potremmo spiegare il nostro voto?
Questa, per me, é la risposta più semplice, e non solo perché il “Mai con la sinistra” lo lanciai io stesso nel settembre 2012, ancora all’interno di un PDL dall’encefalogramma appiattito, con una iniziativa su Facebook, poi traslata sui giornali ed infine conclusa nelle piazze con gazebo in cui i cittadini vennero ad esprimere i loro personali motivi di opposizione alla sinistra.
Ma anche perché “non stare con la sinistra” per me vuol dire NON votare l’abolizione del reato di immigrazione clandestina, gli indulti e le amnistie, la depenalizzazione delle droghe, la reintroduzione della tassa sulla prima casa, offrire disponibilità alle adozioni per le coppie omosessuali, trattare su finte abolizioni del Senato o su leggi elettorali truffaldine, magari nella speranza di avere in cambio un occhio di riguardo sulla gestione delle frequenze televisive, il pacchetto di controllo di Telecom, la disponibilità finanziaria del circuito bancario e quant’altro.
È chi si comporta così, a “stare con la sinistra”, ed a nulla vale oggi l’opposizione falsa al Jobs Act. Falsa, perché poi al momento della fiducia al Senato fai mancare più di un terzo del tuo gruppo per non correre il rischio di far cadere il governo.
Forse che votare insieme a questi certifica una alterità rispetto la sinistra che solo noi abbiamo mostrato nei fatti? Si, solo noi, perché pure la Lega quando si discute di ottenere quorum agevolati per i partiti territoriali nella norma elettorale, con la sinistra ci tratta, eccome se ci tratta.
E poi, nel merito, ciò che viene proposto è una legge delega, ovvero una serie di enunciazioni che hanno fatto parte dei programmi elettorali e di governo di AN, del Polo delle Libertà, della Casa della Libertà e – da ultimo – del PDL, senza che alcuno degli amici che oggi si mostrano imbarazzati abbia mai contestato nulla.
È come se oggi il Presidente del Consiglio ci chiedesse di guardarci allo specchio, e a me non piace dire che mi faccio schifo.
Altro sarà il momento in cui, in fase di scrittura dei decreti attuativi, si dimostrerà una volta di più l’incapacità di Renzi di tener fede con i fatti alle parole. Quello sarà l’occasione per ribadire inflessibile contrarietà.
E ancora, per dirla tutta, siamo così sicuri che un nostro voto favorevole sarebbe davvero di aiuto al Matteo nazionale? Io penso piuttosto che offriremmo sadicamente un’arma di polemica ai suoi oppositori di sinistra, quelli si contrari nel merito, che rinfaccerebbero a Renzi la scrittura di una riforma più compatibile con noi che con loro.
Quale migliore occasione per mettere in difficoltà il bulletto fiorentino, e contemporaneamente denunciare la fine del centrodestra della seconda repubblica, colpevole di non aver saputo approfittare del consenso e del ruolo, per attuare quella rivoluzione annunciata che ci fece guadagnare credito e partecipazione della maggioranza degli italiani, oggi delusi da ex governanti che patteggiano a suon di milioni per evitare il gabbio o che diffondono “selfie” con figure dalla dubbia generalità?
2) Gli effetti del Jobs Act
Qui sta il “vulnus”. Ho avuto la sensazione che gran parte degli argomenti che mi accusano di “eresia” siano figli di una cultura economica di stampo fordista, superata dalla storia prima che dalle simpatie politiche.
Ragazzi, lo scenario in cui dobbiamo combattere oggi è altro!
La globalizzazione, stoltamente salutata da molti alla fine degli anni ’90 come la scoperta di nuovi mercati ha, come era facilmente prevedibile, prodotto il risultato inverso: i nostri mercati sono diventati facile terra di conquista per sistemi che producono a costi decine di volte inferiori, privi di vincoli e norme di carattere etico, sociale, ambientale, amministrativo.
La crisi finanziaria del 2008, che ha acuito la differenza proprio a favore delle nuove economie in espansione, ha limitato la disponibilità di credito disponibile in Occidente.
La conseguente crisi economica, di cui ancora non si vede la fine, ha falcidiato il mondo dell’impresa, in cui regge chi ha la forza di de-localizzare, sostituire la tecnologia all’apporto del capitale umano, optare per i mercati a minor incidenza fiscale.
In tutto questo, la situazione italiana è peggiore di quella dei nostri tradizionali competitori. Da noi la struttura del capitalismo familistico ha prodotto un incomparabile esercito di imprese di piccole dimensioni, strutturalmente sotto-capitalizzate, in grado di lavorare solo se garantite dal credito di terzi, banche in primis. Da noi, l’imperdonabile consociativismo democristiano degli anni ’60-’70-’80 ha realizzato un impianto normativo scritto ed imposto dai sindacati più retrivi e demagogici. Da noi, il sistema clientelare ha sfruttato a tal modo i denari pubblici delle casse previdenziali da produrre, per continuare ad autoalimentarsi, un insopportabile iato tra quanto spende un’impresa e quanto percepisce un lavoratore.
Oggi le condizioni date determinano una reale impossibilità di invertire la tendenza a perdere posti di lavoro e ad allargare la popolazione disoccupata, con particolare gravità per i cinquantenni che perdono il lavoro e per i giovani (anche ad elevata formazione) che non riescono a trovare il primo impiego.
La fissità e l’onerosità delle regole non può allora esser difesa sulla scorta di parole d’ordine che – guarda caso – suonano più naturali sulla bocca di Landini che sulle nostre.
Il tema è generale, poggia sul principio di ottenere in ogni istante il massimo dell’occupazione possibile, e va anche al di là del famigerato articolo 18, che comunque rappresenta un odioso crinale tra chi ha un tipo di protezione ed i tantissimi che mai l’avranno.
Non so se lo snellimento di regole, procedure e costi del lavoro sarà sufficiente a ridare competitività alla nostra asfittica economia, e a dire il vero sono comunque pessimista sul punto. Ma senza questa “tassa di iscrizione”, non possiamo nemmeno iscriverci al campionato per provare a giocarci la salvezza.
A noi il compito, responsabile, di parlare il linguaggio della verità, per quanto cruda possa essere, prima che sia troppo tardi.
Cat Stevens, in una delle liriche più emozionanti della storia della musica, “Father and Son”, avvertiva: “you will still may be here tomorrow, but your dreams may not” (tu potresti ancora esser qui domani, ma i tuoi sogni no). Non vorrei mai doverlo dire a chi verrà dopo di noi.
3) L’eterno conflitto tra destra sociale e liberale
L’equivoco di una vita. Io sono di destra, e non avverto il bisogno di alcuna aggettivazione qualificativa, punto.
E per me significa credere nello Stato e difenderne le istituzioni, chiunque le rappresenti temporaneamente (per questo ho recentemente espresso forte contrarietà al fatto che un Tribunale convochi il Presidente della Repubblica finché è in carica); affermare la responsabilità personale dei propri atti, nel bene e nel male; combattere perché il premio al merito consenta la crescita nella scala sociale, contro ogni deriva egualitarista della sinistra; riconoscersi e difendere una storia che si è fatta identità; privilegiare lo ius sanguinis allo ius soli; affermare i diritti civili per ognuno, ma rendere indiscutibili i diritti naturali; non temere di affermare la verità, anche quando per molti è politicamente scorretta; dare primato all’etica ed alla legalità, anche e soprattutto nello svolgimento di pubblici incarichi; sembrare, oltre che essere, onesti nel pensiero e nell’azione.
E, in materia economica, significa sapere che nessun governo o legge produrranno mai ricchezza da sé (ci provò il modello comunista, che difatti crollò senza bisogno di sparare un colpo, sotto il peso del proprio fallimento). Che uno Stato ha il dovere di creare infrastrutture di servizio; tagliare burocrazia; non cedere al ricatto di sindacalisti e banchieri; diminuire la pressione fiscale contenendo le spese; sostituire alle autorizzazioni i controlli. Ma che la produzione, i posti di lavoro, la distribuzione del reddito, li creano le imprese e i tanti che combattono ogni giorno, senza tutele e garanzie.
Tutto ciò, piaccia o no, è Destra in ogni parte del globo terraqueo.
E se non bastasse, se un dubbio mi assalisse, sarei confortato dal vedere che contro tutto questo si battono gli epigoni del comunismo nostrano, i sindacalisti foraggiati e tutelati della FIOM, quelli che che vanno in manifestazione spaccando vetrine e lanciando estintori addosso alle Forze dell’Ordine. E capisco che il mio posto è altrove.
No, davvero, non mi avete convinto. Anche perché spesso chi mi contesta è proprio chi da noi si aspetta una presa di distanze dal nuovo amico di Luxuria, ed oggi perde l’occasione di farlo e di rinfacciargli di aver tradito l’impegno preso con qualche decina di milioni di italiani, che aveva creduto in una rivoluzione illustrata nel ’94, rievocata nel 2001, abortita tra festini e case a Montecarlo nel 2011.
Con Amicizia
Massimo Corsaro *
*deputato di Fratelli d’Italia