Quando le fontane sono secche bisogna andare a prendere l’acqua al fiume. Occorre cioè tornare all’origine, dissetarsi alla sorgente.
L’Italia ha la gola arsa e deve ritrovare se stessa. Per farlo ha bisogno di luoghi dove confrontarsi con i propri archetipi, di luoghi dove l’italiano possa provare a riscoprirsi italico, come sulle terre alte d’Appennino, così ricche di sorgenti e d’energia. E’ questo il tema di molte riflessioni e di altrettante iniziative che verso i monti e verso l’Appennino si muovono da versanti differenti: dalla poesia alla musica, dall’estetica all’economia. Un viaggio verso l’interno, non solo della nostra terra, ma anche di noi stessi.
Lindo Ferretti, barbarico, italico, appenninico
Di un ritorno alle antiche fonti, o meglio alle radici, scrive nei suoi ultimi libri Giovanni Lindo Ferretti (Reduce/Bella gente d’Appennino/Barbarico – Ed. Mondadori). L’ex cantante dei CCCP, folgorato dalla fede cattolica, ha saputo trasformarsi da musicista punk filo-sovietico, a cantore reazionario dei valori appenninici, attraverso un percorso impervio ed elegante come un sinuoso sentiero di montagna che dal bosco esce verso i prati sommitali.
Anni fa, in un’altra vita, Lindo Ferretti urlava le strofe surreali di Fedeli alla linea con una chitarra distorta in sottofondo; oggi intona il Te Deum accompagnato dalle vibranti sonorità di Ambrogio Sparagna. Nei suoi libri si definisce barbarico,italico e appenninico, ma non è certo né il primo, né l’unico ad aver percorso questa stretta via di ritorno, dalla città ai monti.
Il midollo d’Italia
Un viaggio difficile e facilissimo, così lontano così vicino, privo di esotismi, un ritorno a casa, verso la spina dorsale dell’Italia, verso il suo midollo, quell’Appennino che Paolo Rumiz ben definisce come la catena dei “monti naviganti” (La leggenda dei monti naviganti, Feltrinelli 2007) e che resta la radice più profonda del nostro essere, oggi troppo spesso ridotta a rappresentare il lontano ed offuscato fondale della vita frenetica nelle città delle pianure.
La montagna di Guccini
Francesco Guccini, figlio d’Appennino e sempre più arroccato nella natìa Pàvana, in un’intervista ad Alp di diversi anni fa, diceva: <Un collega di Bologna, che di nome fa Lucio, mi fa ogni tanto: “Ma che cosa fai lassù per tanto tempo?”; potrei ribattere chiedendogli a mia volta cosa fa lui in città di tanto importante, ma preferisco rispondere come un mio giovane amico che è tornato a vivere in montagna: “Niente”. Che naturalmente non vuol dire niente: ci sono le mille azioni quotidiane che alla fine della giornata possono rappresentare molto o niente, a seconda dei punti di vista>. E aggiunge, il buon Guccini: <Accettare la vita com’è e vivere in maggior sintonia con i cicli della natura, sono i valori della cultura montanara che oggi dovremmo in qualche modo recuperare>.
L’Appennino di Dino Campana
Terra di cantautori e di poeti, l’Appennino tosco-emiliano è stato anche il rifugio dell’anima inquieta di Dino Campana. Ne “I monti orfici” (Ed. Polistampa Firenze 2003), Giovanni Cenacchi ricordava come il Rimbaud italiano vedesse nella montagna il <cammino, dove il tempo è scandito unicamente dal passo, e dove quindi il tempo della quotidianità, del razionale ritmo urbano, è sospeso ed è finalmente possibile lo smarrimento in se stessi>. Ma Campana vedeva nei suoi monti anche il luogo del perfezionamento della poesia in esperienza. Per Campana occorreva infatti naturalizzare il verso: <Non basta cantare il sole, le rocce, il vento o l’acqua, ma la poesia deve essere acqua, sole, rocce, vento…>. L’acqua il vento/La sanità delle prime cose… e della ricerca degli archetipi, in Appennino.
Case abbandonate e passioni occasionali
Ma da tutta questa poesia ci mette in guardia proprio Giovanni Lindo Ferretti. La montagna è un’enclave, è ricerca della bellezza in un Paese assediato da horribilia e dalla crisi. Sì, è vero. Ma sui monti la crisi è una ventata gelida che non può ammazzare chi è già morto.
<Oggi – dice Ferretti in Bella gente d’Appennino – la montagna si configura come emozione estetica, coniugata, per lo più, nella dimensione sportiva, come luogo privilegiato dello spirito, tensione all’assoluto>.
Mai avuto tanti amanti questa montagna, mai stata tanto disprezzata.
<Come una bella donna, non ha difficoltà a trovare un compagno per il fine settimana, così l’Appennino vive d’incontri occasionali>. I suoi borghi e le sue case di pietra sono abbandonate o trasformate in abitazioni per le vacanze, non più benedette dal prete, che prima di Pasqua trova l’uscio sbarrato. Nessuno ci nasce, nessuno ci muore.
I veri montanari sono espropriati, quelli nuovi sono solo occasionali. In Francia le campagne sono piene di vacche e i giovani non si vergognano di fare gli allevatori. Qui le rare greggi sono governate da albanesi e kosovari d’importazione e il territorio si è trasformato in ambiente, spesso in parco. O in riserva.
Un nuovo abitare nei borghi montani?
Il tema è, dunque, cosa fare della montagna?
<Dovrebbe essere il progresso tecnico-materiale che ha svuotato le valli dei loro abitanti – suggerisce ancora Giovanni Lindo Ferretti – ad offrire i presupposti di un nuovo abitare in montagna>. Che però arranca e stenta.
E se la montagna non vuole essere solo meta turistica e i montanari residui semplici figuranti, cos’altro può essere?
Un altro sentiero, ovvero un ReStartApp…
Sfruttare gli strumenti del demonio, la rete, la banda larga per costruire un nuovo vivere della montagna, per trasferirvi le aziende dell’immateriale e della creatività, accanto alle stalle? Lo spazio delle braccia e delle gambe, della mano che tocca, accanto a quello virtuale: a dare una misura a quello virtuale. A perfezionare la poesia – o la creatività – in esperienza, come intuiva Dino Campana…
La nuova frontiera dei montanari, la trasformazione della fatica grazie agli strumenti della modernità? C’è chi le studia queste diavolerie, chi ne fa oggetto di approfondimento e di prove sul campo, come la Fondazione Garrone (quello dell’Erg) che ha dato il via al progetto ReStartApp (http://www.fondazionegarrone.it/formazione-restartapp.html) per giovani imprenditori in Appennino.
Ma su tutto questo fervore grava la sentenza di Giovanni Lindo Ferretti: <Nutro forti dubbi sulle sorti del progresso nell’animo umano>.
Riportiamo a valle il genius loci
E così, conforto dei montani restano i monti. Ma la loro cultura può essere di sostegno anche nell’operare a valle, un po’ come diceva René Daumal ne Il Monte Analogo, <l’alto conosce il basso e il basso non conosce l’alto: si sale si è visto, si scende, non si vede più, ma si è visto>.
Su questa linea si muovono esperienze culturali vivaci come il Festival dell’Appennino (http://www.festivaldellappennino.it/) con epicentro nel Piceno. Un festival che – come dicono gli organizzatori, Andrea Antonini e Maurizio Serafini – vuole portare gli spettatori della valle nei piccoli centri appenninici con l’intento di svelare l’incanto dei luoghi, il genius loci, tra poesia, musica, filosofia, ma soprattutto incontrando e riscoprendo l’essenza delle tradizioni popolari, in un viaggio antropologico che metta in risalto – a volte con grande imbarazzo – il prezzo pagato alla modernità e alla comodità delle pianure.
Fratellanza appenninica
La salita in Appennino se non è proprio un “passaggio al bosco”, è dunque un modo di abbeverarsi alle fonti, per placare l’arsura e per tornare a valle ricaricati. E forse è anche il tentativo di far nascere una nuova comunità, una “fratellanza appenninica” che s’incontri e s’incroci sulle dorsali dei monti italici, come facevano i nostri Antichi, ma con spirito nuovo. Una fratellanza e una comunità che non sarebbero poi così bislacche, in un Paese come il nostro, talmente alla ricerca d’identità, d’essersi immaginato perfino quella Padana. Il viaggio è lungo, ma i sentieri tortuosi sono spesso quelli che danno le maggiori soddisfazioni ai montanari.