I grandi vecchi della destra non muoiono mai soli. Nel maggio del 1988, a pochi giorni di distanza, sparivano Giorgio Almirante, Pino Romualdi e Nino Tripodi, brillante oratore, fine critico letterario e direttore del “Secolo d’Italia” nell’epoca in cui fra i “ragazzi di via Milano” c’erano un Gennaro Malgieri, un Mauro Mazza, un Carlo Cozzi. Questo mese di agosto ha visto la dipartita di Franco Servello e Donato Lamorte. Di quest’ultimo parlerà altri meglio di me, perché non ho mai collaborato con lui. Su Servello mi permetto di scrivere per gli amici di Barbadillo un ricordo breve e sincero, perché l’ho conosciuto di persona, negli ultimi tempi della sua vita.
Servello non era molto popolare negli anni Settanta, fra i ragazzi della mia generazione. Giocavano a suo sfavore – oltre all’eterna supponenza dei ventenni nei confronti di chi è venuto prima di loro – un’aura di moderatismo, che in realtà era la conseguenza di un approccio serio alla politica, la non provenienza dai ranghi dei combattenti della Rsi o dei combattenti non cooperatori e soprattutto un tragico episodio che rischiò di spezzare la sua carriera politica. Era il 12 aprile 1973, un giovedì, e la federazione del Msi di Milano, di cui Servello era responsabile, aveva indetto una manifestazione con l’onorevole Ciccio Franco, al culmine della popolarità come protagonista della rivolta di Reggio Calabria. Il governo Rumor, col probabile intento di mettere in difficoltà il Msi, reduce dal successo elettorale delle politiche dell’anno prima, aveva revocato all’ultimo il permesso. All’epoca non esistevano facebook né cellulari per avvisare i militanti e comunque i giovani del Fronte della Gioventù sarebbero scesi lo stesso in piazza. Vi furono scontri con la Polizia, nel corso dei quali un agente morì, colpito da una bomba a mano Srcm35. Chi ha fatto il militare sa che la Srcm35 (acronimo di Società romana costruzioni militari: 35 indica l’anno del secolo scorso in cui entrò in produzione) non è certo un’arma micidiale. È una bomba a mano detta offensiva, destinata a suscitare panico nel nemico più che a far danni, altrimenti ferirebbero lo stesso assaltatore: le bombe davvero pericolose sono quelle difensive, le ananas. La morte del povero agente Marino fu una terribile fatalità, che parve mettere in discussione la stessa sopravvivenza del partito, già minacciato da una richiesta di autorizzazione a procedere per ricostituzione del disciolto Pnf avanzata dal procuratore della Repubblica di Milano Bianchi d’Espinosa. Nell’occhio del ciclone, mentre centinaia di militanti venivano arrestati, il Msi non solo come ovvio condannò l’episodio, ma pose sui responsabili del delitto una taglia di cinque milioni, cifra tutt’altro che esigua (la grande inflazione sarebbe esplosa solo dopo pochi mesi dopo, in seguito alla guerra del Kippur). L’intascò lo stesso segretario milanese del Fdg che comunicò alla Questura i nomi dei due responsabili, che furono condannati a una lunga detenzione. Fu una tragedia nella tragedia, anche perché uno di loro era figlio di un noto pugile che non aveva mai nascosto le sue simpatie per la destra.
Non entro nel merito della tristissima vicenda, con cui ebbero inizio i sette anni terribili della storia della destra, destinati a concludersi, in parte, dopo la strage di Bologna. Mi limito a far presenti ai più giovani, che hanno avuto la fortuna di non vivere quei momenti, alcune considerazioni. Il Msi era nel 1973 (e lo sarebbe rimasto per molti anni) una cittadella assediata. L’ultrasinistra aggrediva le sue sezioni per odio ideologico e aveva tentato pochi mesi prima d’impedirne il congresso che ne sancì la trasformazione in Destra nazionale. Solo pochi galantuomini, fra cui Peppino De Filippo, in questo superiore di una spanna al fratello, condannarono le violenze che videro coinvolto, ironia della sorte, il figlio dell’uomo più ricco del mondo, Paul Getty Jr. La Dc mirava al ridimensionamento del partito, forse al suo scioglimento, nella speranza, rivelatasi infondata, di recuperarne voti “d’ordine” che considerava, con una celebre definizione andreottiana, “in frigorifero”. La scissione di Democrazia nazionale sarebbe rientrata in questa strategia. Ancor più dei Carabinieri, apolitici per tradizione, i “celerini”, in larga parte sottoproletari del Mezzogiorno, simpatizzavano per la destra. Gennaro Malgieri, tanti anni fa, mi raccontava di poliziotti che, comandati di caricare una manifestazione del Msi, non si muovevano o manganellavano “al rallentatore” i dimostranti. Quello sciagurato “giovedì nero” rischiava di spezzare un bel rapporto, consolidatosi proprio a Milano nel 1969 dopo la morte dell’agente Annarumma nel corso di una manifestazione dell’ultrasinistra, e in effetti lo spezzò, o almeno lo incrinò. Ebbi modo di rendermene conto appena cinque mesi dopo, a Lido di Camaiore, quando un reparto della Celere schierato in forze non si mosse per impedire che il bar Versilia, gestito da una coppia di estremisti di destra, venisse incendiato dai dimostranti. Maturò allora quel movimento dei “poliziotti democratici” che avrebbe condotto otto anni dopo alla riforma della Ps. .
Servello, che all’epoca era anche vicesegretario nazionale del partito, agì sotto la pressione degli eventi, e certo in sintonia con Almirante. Sapeva che gli ambienti giovanili del Msi a Milano erano inquinati da esponenti dei servizi segreti e aveva scritto anche una lettera di protesta al comando regionale dei Carabinieri. Sapeva pure che San Babila era un brutto crocevia di estremismo politico, malaffare, prostituzione, traffico di droga; che molti giovani giocavano alla rivoluzione, provocatori di professione o reduci da letture indigeste di Evola, convinti di poter “cavalcare la tigre” mentre si sarebbero fatti disarcionare anche da un ronzinante qualsiasi. Forse avrebbe potuto fare di più, forse gli mancarono il carisma o il temperamento per affrontare di punta certe situazioni. Gli errori suoi, se vi furono, furono comunque quelli di tutta una classe dirigente che si illudeva in quegli anni di poter coniugare sovversivismo e richiamo all’ordine, boia chi molla e maggioranze silenziose, alternativa al sistema e destra nazionale, perseguendo mezzo secolo dopo la strategia del Mussolini ante marcia, senza averne la statura politica né la caratura culturale. Chi pretende la damnatio memoriae di Servello, dovrebbe per essere coerente mettere in discussione anche il mito di Almirante.
Quella dell’agente Marino fu una delle due ombre che pesavano sulla vita di quest’uomo onesto e probo, che alla politica aveva dedicato un’intera esistenza, che aveva venduto alcuni immobili di sua proprietà per pagare i debiti del Movimento sociale, che nel 1972 si era salvato dal piombo di un terrorista che lo attendeva nelle scale di casa sua solo per un provvidenziale cambiamento di programma: era tornato a casa prima del solito per assistere in televisione a una partita dell’Inter, di cui era tifoso e dirigente. Della seconda di queste ombre noi ragazzi degli anni Settanta non sapevamo nulla, ma in realtà aveva pesato in maniera non indifferente sugli esordi della sua carriera politica, tanto che era stato costretto tanti anni prima a scrivere un pamphlet per replicare in proposito ai suoi avversari.
Figlio di emigranti, nato negli Stati Uniti nel 1921, Servello al momento dell’armistizio si trovava al Sud, dove divenne redattore del “Mattino”, un quotidiano monarchico, e corrispondente del “Corriere” di Salerno. Proprio su questo giornale dopo il 25 aprile 1945 uscì un suo articolo in cui erano espressi giudizi critici su Mussolini e altri gerarchi. Lo scritto, che in realtà era stato pesantemente “ritoccato” dalla redazione, come succede un po’ in tutti i quotidiani, gli sarebbe stato a lungo rinfacciato nell’ambiente neofascista e gli avrebbe in un primo tempo preclusa l’elezione al Parlamento.
Se il giornalismo gli creò qualche problema, fu anche la sua via d’accesso, sotto un certo punto di vista casuale, alla politica. Il suo ingresso nella galassia neofascista avvenne attraverso la collaborazione col “Meridiano d’Italia” di suo zio Franco De Agazio. De Agazio era un fascista “eretico”, che durante la Rsi, per i suoi interventi anticonformisti, era stato fatto arrestare dal ministro dell’Interno Buffarini Guidi. De Agazio, in quanto epurato dopo il 25 aprile, non poteva firmare il giornale; di conseguenza il giovane Servello si era trovato a iniziare nel 1946 la sua carriera come direttore, sia pure soltanto“responsabile”, ai fini della legge sulla stampa. Un anno dopo lo divenne purtroppo anche di fatto, perché nel marzo del 1947 suo zio fu assassinato dalla Volante Rossa. De Agazio fu ucciso perché il suo giornale, che tirava cinquantamila copie, aveva ottenuto un notevole successo di pubblico, raccogliendo consensi anche al di fuori dello stretto ambito nostalgico, ma soprattutto perché aveva fatto luce sullo scandalo dell’oro di Dongo finito nelle casse del Pci. Dopo la morte dello zio, Servello assunse a pieno titolo la direzione del “Meridiano”, nonostante le minacce subite dai comunisti, e cominciò la sua paziente ascesa ai vertici del Msi, che l’avrebbe portato ininterrottamente in Parlamento dal 1958 al 2006.
Pur avendolo già conosciuto già in precedenza, durante le riunioni della pletorica quanto pleonastica Assemblea nazionale di An, ebbi occasione di stringere rapporti più cordiali con lui in occasione di uno degli incontri alla “Versiliana” di Marina di Pietrasanta che organizzavo insieme a Romano Battaglia, grazie a una felice iniziativa di Massimiliano Simoni. Era la fine agosto del 2007 e mi era stato chiesto di organizzare un incontro bipartisan di carattere politico. Mi rivolsi a Servello, che mi propose la replica di un dibattito fra lui e lo storico esponente del Pci Emanuele Macaluso che tre anni prima Umberto Croppi, ancora direttore editoriale della Vallecchi, aveva promosso a Firenze. L’interesse era accentuato dal fatto che i due politici avevano dedicato altrettanti libri alla loro esperienza: rispettivamente 60 anni in Fiamma e Al capolinea. Controstoria del partito democratico.
Non tornerò sui contenuti del dibattito, di cui ho già parlato nel mio Incontri e scontri alla Versiliana. Non ebbi comunque difficoltà a intuire che il fair play fra i due uomini era legato ad alcune analogie che andavano al di là delle convinzioni politiche. Né l’uno né l’altro dei due erano mai assurti ai vertici dei rispettivi partiti, il Msi poi divenuto Alleanza nazionale il primo, il Pci con le sue successive evoluzioni il secondo. Avevano tuttavia occupato sempre posizioni di rilievo nei rispettivi apparati e solo di recente erano usciti dall’arena parlamentare.
Macaluso, coerente con le posizioni assunte nella sua militanza comunista, era divenuto editorialista del “Riformista”, Servello aveva ottenuto l’incarico, più di prestigio che di potere, di presidente dell’Assemblea nazionale di An, dopo le dimissioni di Fisichella. Proprio la lunga permanenza nelle istituzioni aveva favorito la nascita di una reciproca stima fra i due, come capita spesso un po’ in tutte le assemblee elettive fra persone che, pur essendo molto distanti per convinzioni, scoprono nel lungo lavoro delle sedute e delle commissioni affinità elettive e un comune approccio ai problemi.
Prima dell’incontro, Servello mi volle a pranzo al suo albergo, un bel quattro stelle sul lungomare di Marina di Pietrasanta, a pochi metri dal parco della Versiliana. Signore qual era, vi si era sistemato a sue spese, con la moglie, senza approfittare dell’ospitalità della Fondazione, ma utilizzando l’incontro per un breve soggiorno a Fiumetto. A tavola con lui trovai il vicesegretario generale del Senato, con cui Servello in qualità di questore della Camera Alta aveva intrecciato rapporti di stima, e la figlia del generale Renzo Montagna, capo della Polizia durante la Repubblica sociale a partire dall’ottobre 1944, quando aveva sostituito Eugenio Cerutti. Ebbi così modo di scoprire che Montagna aveva svolto un tentativo meritorio di limitare gli abusi delle polizie private – le varie bande Carità e Koch – moltiplicatesi dopo l’8 settembre. Passando dalla tragedia alla commedia, come prevedevano i vecchi manuali di retorica, la conversazione slittò sull’episodio del mancato conferimento a Servello dell’incarico di sottosegretario allo Sport nel primo governo Berlusconi; una delusione che ancora l’addolorava, per il modo con cui era andato disatteso un impegno preso, nonostante che il senatore fosse stato uno dei primi artefici dell’intesa fra Fini e il Cavaliere.
Nel corso di altri inviti e di altri incontri ebbi modo di approfondire altri aspetti della vicenda politica di Servello: una storica rivalità con Tremaglia, cui non poteva perdonare di avere chiesto la sua “testa” dopo il “giovedì nero” (il che non gl’impedì di dedicargli sul “Secolo” un cavalleresco ricordo in occasione della morte) e un ambivalente rapporto nei riguardi di Almirante e di alcuni maggiorenti di An. Di Almirante mi ricordava la proverbiale sobrietà e onestà, che non gl’impediva di fare qualche concessione di uomo innamorato alla seconda moglie, donna Assunta. Dei “colonnelli” avvertiva tutti i limiti, psicologici ancor prima che ideologici. Come si sarebbe espresso anche in un’intervista, addebitava loro il torto di essere degli ex giovani che si ritenevano ancora giovani. Credo che sia difficile dargli torto.
Dopo quei felici incontri versiliesi ebbi modo di sentirlo e di vederlo in due occasioni. La prima fu la nascita della Fondazione Alleanza Nazionale, cui mi era stato richiesto di aderire in quanto socio di diritto. Un po’ perplesso di fronte alla richiesta di un’oblazione di 300 euro da parte di un’associazione che disponeva di un patrimonio mobiliare e immobiliare multimilionario, gli chiesi un consiglio. Mi convinse con il suo ottimismo, che poi era un tributo a una severa disciplina di partito (sia pure di un partito che non c’era più), spiegandomi che quei soldi servivano provvisoriamente per le spese di segreteria e che poi la fondazione sarebbe stata fondamentale per promuovere convegni, pubblicazioni, iniziative per far conoscere la storia e i valori della destra. A cinque anni di distanza, i fatti gli hanno dato torto. Non si sbagliava invece quando criticava la genesi del Popolo della Libertà: invece della fusione di due partiti e di due mondi diversi per storia e sensibilità avrebbe visto bene una federazione. I fatti in questo caso gli hanno dato ragione.
La seconda e ultima volta in cui lo vidi fu nel luglio del 2010 a Firenze. Era il cinquantesimo anniversario dei fatti di Genova e Jacopo Cellai, consigliere comunale, vicepresidente del Consiglio municipale e figlio di Marco, storico esponente della destra toscana, presentava il volume che, ampliando la sua tesi di laurea, aveva appena dedicato allo sfortunato congresso del partito. Con lui, nella sala consiliare, nel salone dei Dugento in Palazzo della Signoria, c’erano oltre al sottoscritto Altero Matteoli, all’epoca ancora ministro, Marco Cellai, lo scrittore e giornalista Luciano Garibaldi e un assessore del Pd, che per questo aveva subìto non poche critiche da parte dei suoi compagni di partito.
Servello parlò per ultimo, con un intervento tribunizio, quasi urlato nel finale: come molti vecchi esponenti missini, era abituato a tenere un tono della voce molto alto per la lunga pratica di comizi in piazza tenuti di fronte a folle tumultuanti che tentavano con le loro contestazioni di coprirne la voce. Pareva che, invece che nel salone dei Dugento, dinanzi a un pubblico selezionato e non certo ostile, si trovasse davvero a Genova, di fronte ai “camalli” armati di uncini. Per l’occasione, l’intervento mi mise in imbarazzo soprattutto per il giovane assessore del Pd, già abbastanza messo in croce dai suoi compagni. Oggi, invece, il suo ricordo mi commuove un po’. A quattro anni di distanza, ho capito che Servello apparteneva già alla Storia del Novecento e la Storia del Novecento, con le sue luci e le sue ombre, apparteneva un po’ anche a lui.
@barbadilloit