E’ diffuso e concorde parere – anche se sono molto diversi gli elementi e gli argomenti che contribuiscono a formarlo: si tratta pertanto di una concordia discors – che il pontificato di papa Bergoglio costituisca una svolta effettiva e profonda nella storia della Chiesa: una svolta della quale non si sono ancora rivelati tutti gli aspetti e che è ancora impossibile da valutare sul piano delle conseguenze. Provenire dalla Compagnia di Gesù (infrangendo una “vecchia” regola che sembrava aver avuto valore perfino nei confronti di Carlo Maria Martini: quella secondo la quale nessun gesuita sarebbe mai asceso al soglio di Pietro) significa aver seguito un modello molto diverso da quello di Francesco d’Assisi. Badate, non lontano, tanto meno opposto: che poi Ordine minoritico e Compagnia si siano sovente accapigliati nella storia è un altro discorso. Né lontananza, né opposizione, né ostilità: ma diversità sì, eccome. E allora che cos’ha condotto un gesuita, divenuto papa per la prima volta nella storia, a proporre con la sua scelta onomastica il modello del Povero d’Assisi? In che senso l’esempio di Francesco può essere di guida a un pontefice? E in che senso quel pontefice può sperare – se questo è davvero il suo programma – ch’esso sia di guida alla Chiesa cattolica intera?
Max Weber ci ha insegnato che esiste una tensione continua e irrisolvibile tra càrisma e istituzione. I carismatici possono ben fondare delle istituzioni: ma, di solito, non vogliono o non sanno guidarle. Questa norma weberiana ha guidato in qualche modo,avant la lettre, lo stesso Francesco all’indomani della redazione di quella Regula bullatache in più parti correggeva e modificava la volontà e le intenzioni alla luce della e delle quali era stata redatta la precedente, appunto e non a caso non bullata. Interpretare i motivi per i quali Francesco si tira da parte e lascia ad altri il governo della fraternitas ormai divenuta ordo è difficile: e le generazioni intere di studiosi che si sono affaticate attorno a questo problema, le biblioteche intere di studi che gli sono stati dedicati, non hanno se non complicato le cose. Del resto, la funzione degli studi storico-esegetici è proprio questa: sviluppare, articolare, problematizzare. Comprender qualcosa significa proprio questo: non già escogitar soluzioni che abbiano l’aria di esser definitive, bensì intraprendere al via di un approfondimento che per sua natura è infinito. Ma il dato in sé rimane. E ci si può anche domandare se la risposta a quella scelta – la “conseguenza” di essa, il “premio” per essa – non siano state, appunto, le stimmate.
Ma papa Francesco non è frate Francesco. Il papa è il capo di un’istituzione e non può ritirarsi da essa, salvo il seguir l’esempio di Benedetto XVI. Nel suo discorso sull’aereo che lo riportava da Seul a Roma, il 19 agosto 2014, Bergoglio ha accennato anche a questo: può ben accadere che un papa si ritiri. Fino al febbraio 2013, v’era al riguardo solo il controverso episodio di Celestino V; ora ve n’è un altro, ben più costitutivamente e – appunto – istituzionalmente fondante. Però, finché un papa resta tale, egli è il capo di un’istituzione e ha il dovere di guidarla.
Ebbene: in che modo una personalità carismatica può servire da ispirazione per chi sia chiamato a guidare un’istituzione? Per chi, come l’autore di queste righe, si occupi di storia, la risposta (o per lo meno una risposta) va cercata nel processo storico: che è fatto di continuità e di rotture.
Francesco d’Assisi viveva in una Cristianità. Vale a dire in un mondo crudele, barbaro, durissimo: nel quale però tutti gli aspetti della vita personale e comunitaria di chiunque ne fosse parte erano dominati dalla fede e dalla dottrina cristiane. Erano cristiane non solo la fede, la teologia e la filosofia, ma anche la politica, l’economia, la scienza, le arti, l’estetica. All’interno di un mondo così ordinato – e non certo perciò stesso perfetto: al contrario, un mondo di peccatori – Francesco poté esprimere la sua proposta cristiana di piena adesione al Cristo povero e nudo, senza pretendere che essa divenisse l’unica norma possibile, che essa passasse – appunto – dal càrisma all’istituzione divenendo la sola misura nella Chiesa, l’unico modo di vivere all’interno di essa. Nella casa di Dio vi sono molte dimore, com’è stato detto.
Il punto è che oggi non è più così. Quel che definiamo ordinariamente il “processo di secolarizzazione”, dal quale è scaturita la Modernità, consente ai singoli di definirsi cristiani e anche di vivere in conformità con la loro scelta, ma li obbliga a vivere e ad assumersi responsabilità civili, giuridiche e sociali in un mondo che non è più informato dalla fede e dalla dottrina cristiana. Una società odierna può ben essere costituita da una maggioranza e se vogliamo addirittura da una totalità di cristiani, ma non è più una Cristianità.
Ciò impone alla Chiesa anzitutto la presa di coscienza di questo stesso fatto, la piena consapevolezza riguardo ad esso. I cristiani che, in quanto tali, debbono costituire un modello per una maggioranza che non è più tale, o non lo è mai stata. I cristiani che, per rispondere davvero ai loro còmpiti odierni, debbono essere – com’erano quelli prima dell’editto di Teodosio che fece di quella dell’apostolo Pietro l’unica religio licitadell’impero – “il sale della terra”. Una terra piena di crimini e di orrori ma, anzitutto e soprattutto, dominata dall’ingiustizia e dall’indifferenza. Una terra guidata dall’arbitrio individualistico – l’Io al posto di Dio – e dall’Avere al posto dell’Essere.
Una terra dominata da quel che papa Francesco, a Seul, ha chiamato “un’economia disumana”. Era a un passo dalla Corea del nord, che oggi molto di più della Cina è un modello di politica totalitaria. Avrebbe potuto denunziare la “politica disumana”. Ma egli sa bene fino a che punto, nel mondo delle lobbies finanziarie e produttive, l’economia sia primaria rispetto alla politica e i politici, per quanto detentori formali del potere, siano di fatto dei “comitati d’affari” della finanza e delle logiche che presiedono alla produzione e alla distribuzione (ingiusta fino all’aberrazione) della ricchezza.
Ed ecco il nemico personale di Francesco: quello di cui egli si spogliò coram patre in piena Assisi, quel giorno lontano. Nella Cristianità, nonostante le colpe e i difetti degli uomini, era ancora possibile per un cristiano scegliere diversamente da lui. Molti lo fecero e poterono addirittura santificarsi pur continuando a gestire la ricchezza: e fra Tre e Quattrocento furono addirittura i minoriti osservanti come Bernardino da Siena a porre le fondamenta di un “capitalismo cristiano”.
Ma fuori della Cristianità, all’indomani del suo lento e fino a oggi irreversibile spegnersi fra Quattro e Settecento, il mostro si è liberato dalle catene che lo trattenevano. L’auri sacra fames è divenuta la signora di un mondo che ha smarrito i suoi orizzonti trascendenti. In un mondo così, l’unica via possibile per il cristiano è quella di frate Francesco, nudus Christum nudum sequi.
Ma papa Francesco sa che, se ciò può essere per la Chiesa una mèta perseguibile sul piano della strategia, per giungere a ciò occorre una tattica adeguata: una tattica di riconquista al Cristianesimo degli stessi cristiani. Per questo sono necessarie entrambe le misure ch’egli usa adottare: la rassicurante e sorridente quotidianità (in fondo, il Bene è facile; la complicazione attiene al male) e la doccia scozzese delle scelte forti, volte a rinnovare e a risanare la Chiesa. Gradualità nella tattica, fermezza nella strategia. Ma ciò, si obietterà, configura una consapevolezza “apocalittica”, la coscienza di vivere i Tempi Ultimi.
Questo è il punto. E’ proprio così. E’ sempre stato così. L’Apocalisse è il Libro della Rivelazione: non è un racconto di fantascienza. Ciascuno di noi è chiamato all’esperienza degli Eschata: ogni giorno e giorno per giorno. Questo è il senso dell’insegnamento del maestro: ricordate? “Non passerà questa generazione…”. Arrivano nella storia momenti nei quali questa consapevolezza dev’essere particolarmente vigile. Il tempo che viviamo è uno di essi.