Allo scopo di analizzare alcuni argomenti che interessano l’attuale realtà politica e che riguardano in particolare l’area di destra, abbiamo rivolto alcune domande a Marco Tarchi, politologo, scrittore e docente universitario presso la Facoltà di Scienze politiche all’università di Firenze. Attualmente Tarchi dirige il mensile Diorama e il quadrimestrale di cultura politica Trasgressioni. A livello di studi politologici è uno dei massimi studiosi del fenomeno del populismo, sia quello di matrice storica sia quello attuale, più mediatico. Ricordiamo ai più giovani che Tarchi è stato considerato l’ideologo della Nuova destra italiana, esperienza metapolitica, terminata nel 1994 quando ha dichiarato di non ritenere più valida la dicotomia destra-sinistra. La Nuova destra mirava a svecchiare il dibattito politico e culturale della destra italiana. Ma il tentativo di sottoporre la destra «a un bagno di innovazione» venne ostacolato soprattutto dai vertici della destra politica. Tarchi venne espulso dal Msi dopo che la satira de La voce della fogna (da lui fondato nel 1974) era diventato troppo pesante nei confronti della classe politica del partito.
Tra i commenti sul ritorno alla politica di Gianfranco Fini, spicca quello di Antonio Polito sul Corriere della Sera che ha tentato di comprendere i motivi che spingono tanti leader caduti in disgrazia, per proprie responsabilità, per mancanza di seguito o perché bocciati dagli elettori, a non smettere. Afferma Polito che «l’ex politico finito avverte in maniera cocente l’umiliazione di non essere più ascoltato, soffre di non poter più indicare la via ai suoi seguaci, langue in un ozio non più interrotto da telefonate, messaggi, richieste di aiuto, segnalazioni di problemi. È dunque disposto anche ad una platea ridotta, di periferia, di seconda fila, pur di riavere l’ebbrezza di una leadership. Oppure tenta di ovviare alla mancanza di azione fingendo un pensiero, e giù libri, fondazioni, convegni, riviste». Quella degli ex leader come Fini – scrive Antonio Polito – è una «malattia più che una bramosia», «una condanna, non una scelta, come i tossicodipendenti all’ultimo sta- dio che non riescono a porre fine al loro vizio e se le inventano tutte pur di potere continuare». Secondo l’editorialista del Corriere della Sera, i politici che non contano più nulla appartengono alla categoria dei disadattati da ospitare in appositi ospedali, per «la riabilitazione psicomotoria» (Si veda: «Fini e gli altri che non vogliono smettere», Corriere della Sera, 1 giugno 2014). Risponde alla realtà l’impietoso ritratto di Antonio Polito oppure sono altre le motivazioni che hanno indotto Fini a ritornare in campo, pur nella veste di allenatore di un fantomatico «club della destra»? Quali sono le prospettive di un suo annunciato, possibile «nuovo movimento»?
Non posso, ovviamente, sondare i moventi psicologici di Fini, e francamente non mi interesserebbe farlo. I soggetti politici vanno analizzati e giudicati prima di tutto per le azioni che compiono. Da questo punto di vista, mi pare che l’ex presidente di Alleanza nazionale abbia già mostrato abbondantemente doti e difetti. Ha senso tattico, non ha alcuna vocazione alla strategia; è cinico e opportunista quanto potrebbe bastare per aver successo in politica, ma ha un carattere troppo spigoloso per sfruttare queste doti. Nella vicenda del Pdl ha dimostrato un eccesso di ambizione e una voglia di strafare che lo hanno penalizzato. Ha puntato tutto, sfrontatamente, sulla possibilità di farsi incoronare leader del centrodestra da parte degli avversari politici, indossando gli abiti della ragionevolezza, della moderazione, dell’apertura alle ragioni altrui fino al punto di smentire molte delle opinioni esibite negli anni precedenti – che aveva presentato come frutto di solide convinzioni. Puntava su qualche serio incidente di percorso di Berlusconi per vedersi attribuire la patente di unico interlocutore legittimo del centrosinistra e, di conseguenza, di traghettatore dell’Italia dalla prolungata transizione di questi decenni a una nuova fase più stabile. Gli è andata male. Non so se non voglia rassegnarsi a una dorata pensione o se abbia un progetto ben confezionato in tasca o in testa. Credo però che questo progetto ben difficilmente avrà successo. A parte un numero alquanto ridotto di fedelissimi (lo 0,4 per cento incassato alle elezioni del 2013), ben pochi lo stimano. Si è reso odioso a buona parte della base del centrodestra. Non gode certo di buona stampa fra gli ex di An confluiti in Fratelli d’Italia. Il Nuovo Centrodestra non ha certo bisogno di un altro gallo nel pollaio, visti i pochi posti di prestigio a disposizione che gli si prospettano. In queste condizioni, che dire? Se ha trovato chi è disposto a sostenere finanziariamente il suo tentativo, o se ha deciso di accollarsi in proprio i costi dell’impresa, faccia pure. Staremo a vedere i risultati.
Nelle scorse elezioni per le Europee, il calo di Forza Italia, non è stato raccolto dal Nuovo centro destra-Udc né tanto meno da Fratelli d’Italia. Si è trattato di astensionismo oppure di voti che sono andati al Pd di Matteo Renzi, divenuto una calamita di consensi anche dei moderati che una volta premiavano Silvio Berlusconi?
Non c’è dubbio che un buon numero di ex elettori del centrodestra sia confluita attorno a Renzi. Merito di costui, senz’altro, ma demerito dei dirigenti di Forza Italia, a partire da Berlusconi, che hanno fatto di tutto per limare le differenze e accorciare le distanze fra il loro partito e il Pd e per il piatto di lenticchie di una orrenda legge elettorale, che potrebbe alla fine rivelarsi per loro un boomerang, hanno sacrificato non poche delle prospettive future di successo. È un’operazione politicamente insensata, per non dire masochistica, anche perché, con le sue smodate ambizioni e la capacità di interpretare efficacemente il copione che le regole del marketing gli impongono e gli confezionano, se riuscirà a resistere fino al termine di questa legislatura Renzi promette di restare in sella per ben più del presunto «ventennio» berlusconiano. Ma, forse la politica, l’atteggiamento di disponibilità di Berlusconi verso l’attuale presidente del consiglio, c’entra poco. Il sospetto che i suoi comportamenti siano dettati da preoccupazioni esclusivamente personali mi sembra sempre più fondato.
Nello scorso numero, analizzando i risultati delle Europee abbiamo scritto che l’insuccesso di Fratelli d’Italia, nonostante gli sforzi della dinamica Giorgia Meloni (priva però di validi supporti) è stato causato da vari fattori. Ne enumeriamo alcuni: un’insufficiente presenza sul territorio (al contrario della Lega guidata dal bravo Matteo Salvini), la mediocrità dei candidati, la mancanza di idee nuove e di un progetto ad ampio respiro, lo scimmiottamento delle posizioni di Marine Le Pen, l’incapacità (o la volontà) di dialogare con gli altri «cocci» della destra postfascista (il leghista Mario Borghezio, invece, è stato tal- mente abile nel contattare con successo Casa Pound di Gianluca Iannone e il Fronte nazionale di Adriano Tilgher), l’infelice ed infantile escamotage di affiancare al simbolo di Fi quelli di Alleanza nazionale e della Fiamma Tricolore, l’ingresso di Gianni Alemanno nelle liste allo scopo di farlo eleggere, senza tenere conto della sua disastrosa gestione del Campidoglio che ha sputtanato e polverizzato la destra nella capitale… Che cosa dovrebbe fare Giorgia Meloni affinché il suo movimento non faccia la fine del partitino di Fini, Futuro e libertà?
Lei mi chiede di svolgere un compito improbo, oltre che improprio. Faccio il politologo, cioè analizzo la politica, non il consulente… Ciò premesso, mi sembra che i motivi di insuccesso che Lei ha enumerato bastino ed avanzino a far capire che risollevarsi, per Fd’I, sarà dura. Come sa, io da ormai due decenni, nei libri e negli articoli che ho dedicato alle vicende del neofascismo e dei suoi eredi, ho insistito nel mettere in rilievo la carenza progettuale e strategica che ha caratterizzato le vicende postmissine. Nessuna revisione critica seria e approfondita quando sarebbe stato necessario farlo; tanta navigazione a vista; tanto piacere nello sfruttare le risorse del sottogoverno; troppo affidamento alla capacità di raccogliere consenso e distribuire cariche di Berlusconi. Andato a pezzi il Pdl, attorno a cosa, se non a un nuovo capitolo della storia infinita della nostalgia che ha seguito come un’ombra i neofascisti dal 1945 ad oggi assumendo sempre nuove spoglie, si sono raccolti gli ex di Alleanza nazionale confluiti in Fratelli d’Italia? E cosa è scaturito dalla convergenza con un liberale come Crosetto? Quanto poi a radunare i cocci dell’ultradestra, a cosa servirebbe? A peggiorare l’immagine e a cercare – senza successo – di raccogliere lo 0,4 per cento messo insieme dalle varie liste gruppuscolari alle ultime elezioni legislative? Sarò brutale, ma sarebbe l’ora di mettere la parola fine su una storia durata, all’ombra della fiamma, troppo a lungo. C’è stato molto di significativo, in quella vicenda, anche nelle sue pagine più tragiche. Ma si sa che, a volte, le tragedie si trasformano in rappresentazioni di tutt’altro segno…
Alcune ipotesi che, a prima vista, potrebbero sem- brare azzardate, premature e irrealizzabili. La Lega, se fosse capace di crescere e quindi intercettare, comprendere, metabolizzare le istanze delle popolazioni del centro sud, potrebbe divenire un vasto movimento politico capace di coprire, almeno in parte, i vuoti che inevitabilmente (anche per motivi anagrafici) lascerà Berlusconi? Ed ancora: se è vero che la politica post-ideologica costringe i partiti ad evoluzioni, rielaborazioni d’ogni tipo alla ricerca di nuove identità culturali, sociali e politiche, la Lega potrebbe occupare anche gli spazi che una volta erano della destra?
Non si può vietare a nessuno di sognare, ma la Lega ha una storia, un insediamento territoriale, un (mutevole) retroterra sociale, un bagaglio ideale. Qualunque cosa se ne pensi, se lo abbandonasse per avventurarsi in terre incognite, rischierebbe la catastrofe. Salvini sta avendo un discreto successo – ben lontano, comunque, dai fasti degli anni Novanta – perché è, stilisticamente ma anche contenutisticamente, tornato alle origini. Ovvero ha ripreso modi di espressione e mentalità del populismo, che ha un grande potenziale di aggregazione del consenso, oggigiorno. Però, attualmente, il miglior interprete del discorso populista è Beppe Grillo. Vero è che ha l’handicap di una classe dirigente raffazzonata e che spesso stenta a seguirlo, ma le cifre parlano: se riuscirà a indirizzare sul serio il M5S, quel terreno elettorale continuerà a occuparlo lui. Si può immaginare che Salvini o Tosi – ma già questa duplicazione di candidati alla leadership è significativa degli intoppi che si parano di fronte al progetto – vogliano avere voce in capitolo nella probabile futura ricostruzione del centrodestra, ma difficilmente potranno mettersene alla testa. E, se non ci riuscissero, finirebbero per trovarsi in mezzo a un guado. (da Il Borghese di Agosto 2014)