L’itinerario politico ed umano del giovane Roberto Vivarelli può sembrare tutt’altro che originale, e forse lo fu. Un padre fascista, volontario di guerra, ucciso dai partigiani comunisti durante l’occupazione italiana dell’ex Jugoslavia. La scelta spontanea, quasi obbligata, di aderire insieme al fratello Piero alla Repubblica sociale italiana per vendicare il genitore ma anche per rivendicare la fedeltà all’alleato tedesco. Il tentativo non riuscito di entrare, appena quattordicenne, nella Decima e poi l’arruolamento fra i militi delle Brigate Nere di Pavolini. La “bella morte” sfiorata il 25 aprile e i duri giorni della primavera ’45. Un’adolescenza vissuta pericolosamente, o se si vuole bruciata, al termine di una guerra civile europea cominciata un secolo fa, in una semisconosciuta sottoprefettura dei Balcani, e terminata nel crepuscolo di Berlino in fiamme.
L’originalità della sua vita comincia poco dopo. Dopo la caduta del nazismo, la visione dei primi documentari sui campi di concentramento nazisti incrina le granitiche certezze del giovane. Spinto anche dal desiderio di comprendere i meccanismi che lo hanno indotto a compiere le sue scelte, Roberto decide di dedicarsi allo studio della storia contemporanea, disciplina nel corso degli anni Cinquanta ancora in attesa di un pieno riconoscimento accademico. Allievo di un antifascista intelligente, rigoroso e a volte livoroso come Gaetano Salvemini, e di un maestro come Federico Chabod, che approdò all’antifascismo quando il regime pretese di italianizzare i toponimi della sua Val d’Aosta, non tarda ad affermarsi negli studi storici, sino a divenire cattedratico alla “Normale”, oltre che membro dell’Istituto storico della Resistenza. La sua storia del fascismo, testo per l’epoca pionieristico, è uno dei volumi più adottati nelle facoltà di Lettere e di Magistero e il suo manuale di storia contemporanea ha largo corso nelle scuole e nelle università. Il suo passato è sconosciuto ai più o dimenticato: vista la giovane età in cui ha militato nella Rsi Vivarelli non ha nemmeno bisogno di “cancellare le tracce”, a differenza di molti altri. Ma le tracce nel cuore non si cancellano, tutt’al più si rimuovono provvisoriamente, e sul cadere dello scorso millennio, alle soglie della settantina, lo studioso si sente in dovere di pubblicare un volume autobiografico, La fine di una stagione (ed. Il Mulino), in cui decide di fare i conti con il proprio passato di giovane repubblichino. Non per esaltarlo da un punto di vista politico, ma per rivendicare l’intima “moralità”, la dignità di una scelta frutto di un’educazione scolastica e familiare.
Sono anni particolari, con comportamenti talora schizofrenici. La prima repubblica è caduta, e con essa il cosiddetto arco costituzionale; gli studi di Renzo De Felice hanno finito per mettere in crisi la tradizionale vulgata sul fascismo. Ma l’ingresso nell’area di governo di un partito come Alleanza Nazionale, che conserva nel logo una fiamma tricolore sprigionata da un catafalco nero che potrebbe essere, secondo un’antica vulgata, la bara di Mussolini, ha finito per ripascere un antifascismo ora convinto, ora strumentale. Quel clima se non di pacificazione nazionale quanto meno di attenuazione di antichi rancori legato alla scomparsa o all’invecchiamento dei protagonisti di una stagione sembra venire meno. Al tempo stesso, però, un esponente del vecchio Pci come Luciano Violante ha riconosciuto nel 1996 dall’alto del suo scranno di presidente del Senato le ragioni dei ragazzi di Salò.
Il libro di Roberto Vivarelli, dettato forse da un certo gusto, tutto toscano e un po’ spregioso, di buttare all’aria il bel presepe dei luoghi comuni storiografici, suscita un acceso dibattito. E sono in molti a chiedersi chi mai gliel’abbia fatta fare a questo stimato cattedratico di mettersi in causa con questa confessione: come se il rispetto del “documento” (anche quello umano e autobiografico) non costituisse il requisito fondamentale di ogni storico degno di questo nome. Sarebbero sopraggiunti poi altri, ben più scandalosi outing (sit venia verbo), a partire da quello del quasi coetaneo Guenter Grass, che ricordò i suoi adolescenziali trascorsi nelle Waffen SS.
Oggi, l’eco di queste polemiche è attenuato e di Roberto Vivarelli, scomparso domenica scorsa a Roma, non si ricorda il “repubblichino” o il “revisionista”, ma il maestro. La stessa assessora regionale alla cultura Sara Nocentini ha onorato in lui “un caposcuola, un accademico insigne, un uomo libero, indipendente, democratico, alieno da conformismi e mode.”
È tutto vero, ma è giusto ricordare che fu proprio questo anticonformismo a fargli scrivere, nel suo Profilo di storia contemporanea, affermazioni come le seguenti. “Sembra legittimo affermare che con la fine della guerra era stato innanzitutto sconfitto lo stato italiano, il quale, malgrado il voltafaccia del re, era entrato in guerra volontariamente al fianco della Germania, ed era perciò giusto che agli occhi dei vincitori si presentasse come una stato sconfitto. Erano stati ugualmente sconfitti tutti quei cittadini, e non dovevano essere pochi, che nelle stato fascista si erano come che sia riconosciuti. Avevano viceversa vinto non soltanto gli antichi antifascisti, ma tutti quei cittadini, e anche questi non dovevano essere pochi, che al fascismo non avevano mai dato un consenso spontaneo, e infine tutti coloro, e tra di essi molti giovani, i quali pur se al fascismo avevano spesso consegnato le loro illusioni, si erano successivamente accorti di essere caduti in un inganno, cioè di aver ritenuto il fascismo una cosa diversa da quanto si era poi rivelato per essere, e che avevano spesso cercato di riscattare l’errore di quella illusione militando nella Resistenza. Tra vinti e vincitori rimaneva una massa indistinta di cittadini, moralmente amorfi, ma disposti per indole a schierarsi sempre dalla parte del più forte.”
Vivarelli non fu tra questi. Ricordarlo, nella terra di Giuseppe Giusti, è forse il suo miglior elogio.