Poeta e scrittore futurista, “acrobata” del verso libero, teorizzato da Marinetti sulla rivista Poesia nel 1906, Aldo Palazzeschi contribuì al movimento marinettiano con due manifesti, L’incendiario e Il Controdolore (divenuto in seguito l’Antidolore), una raccolta poetica Poemi ed il romanzo Il Codice di Perelà: favola “aerea”, il cui protagonista è un omino di fumo, vissuto per trentatré anni nella cappa di un camino, vicino al quale eran sedute tre vecchie (identificate da alcuni studiosi con le Parche che tessono le fila delle vicende umane) che tenevano alimentato il fuoco da cui è spuntato Perelà.
Difficilmente incasellabile in una categoria ben definita, l’opera del poeta di Rio Bo e della Fontana Malata, assieme a quella di tanti compagni d’avventura come Marinetti, Soffici, Papini o il crepuscolare Moretti rientra in quel genere di letteratura “disimpegnata” che la critica, solitamente schierata, sembra – ancora oggi – poco disposta a metabolizzare del tutto.
La produzione palazzeschiana si presta per ragioni tematiche ad una suddivisione in tre sezioni, che coincidono, in larga parte, con gli anni incendiari del futurismo, il ritorno all’ordine delle Stampe dell’800, delle Sorelle Materassi, dei Fratelli Cuccoli e di Roma, ed infine con la “trilogia del vegliardo”, che per lo sperimentalismo di due di tre romanzi (Il doge e Stefanino), sembrerebbe costituire una sorta di ritorno ai fasti futuristi; tanto da attirare, a suo tempo, l’attenzione di alcuni esponenti della neoavanguardia come Alberto Arbasino e Sanguineti, da cui, però, il poeta fiorentino prese le distanze il 22 ottobre 1966 sulle colonne del «Corriere della Sera»:
«Coloro che furono avanguardisti cinquant’anni fa, saranno i più acerrimi nemici degli avanguardisti d’oggi, giacché la loro avanguardia è passata alla storia senza che se ne siano accorti, e a quella come ostriche sono rimasti attaccati. E dunque, caro Sanguineti, che cos’è mai questa avanguardia?».
La vicenda di Palazzeschi è quella di un «conservatore apolitico», come è stato definito da Alessandro Gnocchi – giornalista del «Giornale» e del «Foglio» -, sempre restio dinanzi al potere politico, di volta in volta avvicendatosi. Afascista durante il Ventennio; tirò un sospiro di sollievo allorché la sua candidatura ad Accademico d’Italia, fortemente caldeggiata da Marinetti, venne respinta.
Al contrario di tanti accesi sostenitori del Regime, come Vittorini e Quasimodo poi arruolatisi nelle fila di Togliatti, si rifiutò di prendere parte alla nuova koiné culturale propagandata dal P.C.I. nel dopoguerra – il cosiddetto “culturame” -, e in pieno Neorealismo, spedì in tipografia due romanzi di impianto tradizionale, quasi ottocentesco, e sicuramente lontani anni luce da ogni sorta di “lukacsianesimo”: I fratelli Cuccoli (1948) e Roma (1953), che inevitabilmente si attirarono le critiche dell’area engagé della nostra cultura; nota la stroncatura di Calvino ai “Cuccoli”, dalle colonne dell’«Unità». Non mancarono, d’altra parte, i riconoscimenti di critici letterari di spessore come Emilio Cecchi, Carlo Bo e don Giuseppe De Luca, che recensì Roma, addirittura, sull’Osservatore Romano.
Ad una lettura dello scrittore delle Sorelle Materassi esclusivamente nelle coordinate di un immoralista e di un dissacratore (sicuramente la produzione di Palazzeschi non manca di una certa componente dissacratoria; che, però, tende a risolversi generalmente in risata liberatoria), oltre allo straordinario Roma (1953) – ritratto della Roma conservatrice e papalina a cavallo tra anni Quaranta e Cinquanta -, fanno da contraltare alcune sue dichiarazioni, condivise con quella cultura cattolica antimoderna, i cui punti di riferimento furono Giovanni Papini e il “prete romano” don Giuseppe De Luca(1). Ad Elio Filippo Accrocca, nel 1962, in un’intervista radiofonica, dichiarò, infatti, di amare la «Roma cristiana, del cattolicesimo», mentre gli aspetti che apprezzava maggiormente della religione erano «l’elevazione degli umili e i dogmi, che mi entusiasmano, perché – continua – io ho il senso del soprannaturale. Per me la cosa più bella della religione sono precisamente i dogmi, sui quali tanti vogliono discutere. I dogmi non si discutono: si credono». E ancora: Valentino Brosio – firma storica de «Il Borghese» – scrive che negli ultimi anni di vita il sentimento religioso dello scrittore si accrebbe in modo particolare, tanto da accostarsi frequentemente al sacramento dell’Eucarestia e da ricevere la benedizione «tante e tante sere come conforto per la notte, presso la Chiesa di Sant’Eustachio»(2).
Al dilagante fenomeno del “femminismo” rispose, invece, nella silloge Via delle cento stelle (1972), con la poesia dal titolo emblematico “La donna coi pantaloni”:
«Che cosa pretende d’essere / Che cosa vuol sembrare? / Dove vuole arrivare? / La risposta è molto semplice: / alla parità con l’uomo / in tutte le cose, / trattare con lui / e sopra uno stesso piano / i problemi / che interessano tutti e due, / non esistere più / fra l’uno e l’altro / segno di distinzione. / E un’altra cosa forse / stuzzica la fierezza del suo procedere / pure essendo una realtà apparente: / non appena il pancino / incomincia a gonfiare / vedere un uomo gravido finalmente! / Questo è il punto più elevato / a cui la donna vuole giungere».
Di certo non prese parte alla cosiddetta “politica politicata”, ma di questioni politiche se ne intese, eccome. Se si scorre la cronologia (a cura di Adele Dei) riportata nei Meridiani dello scrittore editi da Mondadori, si scopre che nel 1948, preoccupato dinanzi all’eventualità di una vittoria comunista, si mobilitò contro il Fronte popolare in occasione delle elezioni politiche. E ancora: nel carteggio con Marino Moretti, pubblicato in quattro volumi dalle Edizioni di Storia e Letteratura, alcune lettere rivelano la figura di un acceso anticomunista e di un estimatore del conservatore liberale Panfilo Gentile e del Montanelli commentatore politico del Corriere. I toni infuocati dell’avanguardia si riversano, ora, negli strali rivolti – su tutti – ai politici comunisti e al loro elettorato. Non mancano critiche a quei democristiani compromessi a sinistra, come ai protagonisti del “compromesso storico”. Così, il 9 novembre 1947, scrive: «La criminalità, oramai, ha invaso ogni campo, nulla si salva. […] Via Por Santa Maria mi par vivere ai tempi di Dante. Qua abbiamo puntato i piedi, i signori comunisti urlano come belve scatenate, ma se lo prendono nel culo fino alla gola» (3). Il 6 febbraio 1962, invece, sempre rivolto all’amico Moretti, dopo il famoso discorso di Aldo Moro a favore del centro-sinistra, afferma di aver previsto ogni cosa prima del tempo: «E io l’avevo previsto già da anni, da quando si sapeva che i giovani della D.C. sono tutti comunisti, cattolici ben inteso. Il 60% del partito»(4).
Maestro del riso dissacrante e del grottesco, fine intenditore di arte, opera e cinema, collezionista filatelico, conservatore “romano”, «sempre attento a non confondere la seriosità con la profondità – scrive Alessandro Gnocchi – già negli anni Dieci liquidava così tutti gli esistenzialisti col maglione girocollo a venire: “Maggiore quantità di riso un uomo riuscirà a scoprire dentro il dolore, più egli sarà un uomo profondo”»(5). In seguito dirà: «L’uomo non può essere considerato seriamente cha quando ride».
Avverso ad ogni forma di intellettualismo, all’editore Arnoldo Mondadori che gli chiede a quale pubblico di lettori desideri rivolgersi, risponde: «Vorrei essere amato dalle creature semplici e non discusso dai sapienti di letteratura».
Note:
(1)Cecchetti Valentino, Una polemica sul frontespizio. Giacomo Noventa e Giuseppe De Luca antimoderni, 2007, Nuova Cultura.
(2)Valentino Brosio, Ritratto segreto di Aldo Palazzeschi, Daniela Piazza Editore, Torino 1985, p.121.
(3)Moretti-Palazzeschi, Carteggio III 1940-1962, a cura di Francesca Serra, Edizioni di Storia e Letteratura, Roma, 2000, p. 86.
(4)Ibidem p. 397.
(5)Alessandro Gnocchi, Ridere da destra/4. Aldo Palazzeschi. I graffi impietosi di un falso mite, in “Libero”, 4 agosto 2006.