Giorgio Almirante era un pifferaio magico. Incantava con la sua voce suadente e penetrava col suo sguardo di perla, toccava con delicata maestria le corde dell’uditorio. Lo infiammava col fascino del proibito, l’epopea dei vinti e il carisma della nostalgia. Tradusse il fascismo in fascinazione allusiva. Per i missini fu l’officiante della destra sociale e nazionale, tra il mito e la storia. Non aveva cultura politica e ideologica, ma letteraria. Non Gentile o Evola, ma Dante e d’Annunzio.
Amava l’italiano, come lingua e come popolo. Non primeggiava in strategia politica e progetti lungimiranti, non aveva attitudine di governo, ma aveva nel sangue la politica come teatro, persuasione e liturgia della parola. Non aveva la schietta umanità di Romualdi né la lucidità politica di Michelini o de Marzio, ma riusciva più di tutti a farsi amare dal popolo di destra e a farsi ammirare da chi non lo votava. Fu il più grande oratore della Repubblica italiana, fluente in Parlamento e magnetico nelle piazze, gremite di gente e di tricolori e nei primi tempi bohémien, in avventurosi comizi su camion e tavolini fin nelle più sperdute periferie. Fu un gran giornalista e diventò il primo leader televisivo di successo. Nessun democristiano o comunista bucava il video come lui. Amava le donne, Mussolini e la Juventus e aveva la civetteria della superstizione.
Domani è il centenario della sua nascita e lo ricordiamo come il paroliere d’Italia, unico leader politico che suscitava l’amor patrio in un Paese che si vergogna di se stesso. Quale fu il disegno politico di Almirante? Per cominciare, Almirante proveniva dalla Repubblica sociale e si sentiva più di sinistra nazionale che di destra. Una volta gli chiesero cosa sarebbe stato se non fosse esistito l’Msi e lui disse: socialdemocratico. Quando diventò segretario dell’Msi, alle soglie degli anni Settanta (lo era già stato per un breve periodo agli inizi), compì la svolta. Collocò nettamente il suo partito alla destra, cavalcò battaglie da partito d’ordine, fino ad affiancare la storica sigla missina alla dicitura «Destra nazionale». Ebbe un grande successo alle elezioni amministrative del ’71 e poi alle politiche dell’anno dopo, moltiplicò la militanza e riempì le piazze. Sognò una destra nazionale che superasse l’originario neofascismo pur senza abiurarlo – secondo la formula di Augusto de Marsanich «non rinnegare non restaurare» – e che si aprisse ai monarchici, alla destra liberale e democristiana, ai partigiani bianchi. Il partito monarchico confluì nella destra nazionale. Quel progetto poi culminò nella Costituente di destra, che fece presiedere a un partigiano cattolico, Enzo Giacchero.
Ma il progetto di Almirante fu aggredito da una risorta mobilitazione antifascista, guidata dal Pci ma teorizzata dalla sinistra Dc tramite l’Arco costituzionale (il conio fu attribuito a De Mita). L’Msi fu ricacciato nel ghetto, fu resa difficile se non impraticabile la sua vita politica, vi fu in tutta Italia una campagna intimidatoria verso chi si professava di destra o solo agitava il tricolore. E allo scopo servirono pure le stragi impunite degli anni Settanta che ricaddero sul partito di Almirante benché fosse la principale vittima di quel clima da caccia alle streghe. L’aria si fece irrespirabile e molti missini uccisi lo stanno a dimostrare. Poi la sconfitta al referendum sul divorzio nel ’74, quando l’Msi affiancò la Dc di Fanfani, dette un colpo durissimo alla strategia d’inserimento anche se i voti missini, soprattutto per le elezioni del Quirinale, erano poi richiesti sottobanco. Ma il colpo di grazia arrivò con la scissione di Democrazia nazionale, quando i due terzi della classe dirigente dell’Msi lasciarono Almirante, anche molti dei suoi sodali più cari. Perse i presidenti dei gruppi parlamentari, la guida della Cisnal, sindacato fiancheggiatore, il Borghese di Mario Tedeschi. La scissione, al di là del pressing politico esterno, nasceva dal desiderio di rimettere la destra nel gioco politico nel quadro di un bipolarismo compiuto. Ma l’operazione non riuscì, e alle successive elezioni politiche Almirante spazzò via i fuorusciti e si confermò leader unico della destra italiana, con un antagonista interno, Rauti, un rivale fraterno, Romualdi, e qualche figura di spicco che non temeva di criticare il capo e la sua linea, come Staiti, Mennitti e soprattutto Niccolai.
Crebbero in quegli anni tentazioni eretiche come la Nuova destra e il socialismo tricolore. Almirante si trovò spesso in conflitto con le menti culturali della destra italiana (io stesso una volta fui da lui definito «un carissimo nemico» e non mancarono conseguenze). Almirante vinse la sfida con i fuorusciti ma il suo progetto nel frattempo era naufragato. Vi fu un ritorno di fiamma, in tutti i sensi, che culminò in un rilancio alle elezioni politiche del 1983. Vi fu un primo tentativo di sdoganare l’Msi ad opera di Bettino Craxi.
Pur nell’isolamento, Almirante lanciò campagne politiche di grande effetto. La lotta alla partitocrazia e alla corruzione, assai prima che Berlinguer ponesse la Questione Morale, la battaglia sulla pena di morte, la linea dura contro la criminalità comune e anche politica (auspicando di doppiare la pena di morte per i terroristi neri) e soprattutto la riforma istituzionale e la proposta presidenzialista. Che in verità era stata rilanciata prima da Pacciardi e non dispiaceva a un gruppo di parlamentari dc, ma Almirante cavalcò quell’idea in solitudine per molti anni. Con la nascita del Parlamento europeo, Almirante pensò anche a un’eurodestra, speculare all’eurocomunismo di Berlinguer, e trovò alleati soprattutto in Spagna e in Francia. Le Pen fu suo amico e alla fiamma missina s’ispirò per il simbolo del Front national.
Qualcuno sostiene che fra gli errori dell’ultimo Almirante vi fosse la designazione di Fini a suo successore. Col senno di poi è facile dirlo. Ma in quel tempo Almirante pensò a un salto generazionale, puntando su un giovane che non avesse un passato fascista e non provenisse dalle litigiose correnti dell’Msi (che fu un partito assai turbolento e frammentato). E poi per un partito isolato, senza agibilità politica, pensò che il requisito principale del suo leader dovesse essere ancora l’oratoria in tv e nei comizi. E quei requisiti Fini li aveva. La buccia c’era, il resto no…
Almirante ebbe una visione epica ed estetica della politica, più che ideologica o strategica. Il Parlamento e la Piazza erano il suo habitat naturale, o i loro succedanei, il Partito e la Tv. Chiamatelo pure fascista, lui non ne sarebbe offeso. Ma è difficile immaginare Almirante fuori dal Parlamento e dalle piazze, fuori dalla polemica politica e dalla contesa elettorale, dalla dialettica e dalla caccia al consenso. Cioè fuori dalla libertà e dalla democrazia. Almirante non lasciò eredi, ma un cospicuo patrimonio ideale, politico e immobiliare a una destra che del suo Msi ha ereditato solo le litigiose correnti. Ma il mondo è cambiato e Almirante appare quasi antico. Non santificatelo, come hanno fatto con Berlinguer; piuttosto consideratelo tra i classici della politica nella storia della Repubblica italiana. (da “il Giornale”)