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Home Cultura

Cultura (di A. Cattabiani). L’eclissi della cortesia

by
29 Giugno 2014
in Cultura
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immagine-gentilezzaRischiamo di perdere una virtù che molti viaggiatori stranieri, dal Settecento all’inizio del secolo, hanno sottolineato nei loro diari: la cortesia, che talvolta poteva sembrare persino servilismo a chi non era abituato a tanta gentilezza nel suo Paese. Ma perché mai un sorriso rivolto a uno sconosciuto in un negozio, in un bar o in un ufficio, o un buongiorno caloroso oppure l’impegno a mettere a suo agio un forestiero capitato in un salotto dev’essere segno di servilismo o di ipocrisia? Predisporre l’animo altrui alla benevolenza e al buon umore è invece un atto di suprema civiltà e anche conveniente, come ci ricordano due proverbi: «La cortesia ci conserva gli amici» e «La cortesia ci procura amici e la verità cruda ci procura l’odio».

I grandi testimoni della fede del nostro tempo La situazione va peggiorando di anno in anno perché si è quasi del tutto perduto il senso rituale che deve presiedere a ogni atto della vita e stiamo importando dalla Potenza imperiale, grazie soprattutto alla televisione, modi e comportamenti canaglieschi sulla scia di modelli di comportamento impersonati dai protagonisti di una sgangherata vita mondana, mentre una volta erano gli ambienti aristocratici e dell’alta borghesia ad essere il modello al quale cercava di uniformarsi, talvolta fino alla caricatura, chi desiderava una promozione sociale.

D’altronde, quando vi è chi della scortesia fa remunerata professione nella vita pubblica e privata, sugli schermi televisivi e nei giornali, ottenendo successo e denaro, diventa difficile arginare questo fiume di maleducazione nel comportamento dei più giovani. La scortesia alligna anche fra le persone che pensano di esserne immuni, come il depositario di un piccolo o grande potere (giornalistico, politico, economico) che non risponde a lettere e telefonate dei non-potenti né si preoccupa di delegarvi i suoi collaboratori perché la sua massima plebea raccomanda: «Non perder tempo per chi non è utile in questo momento».

Nell’antichità la cortesia era chiamata in vari modi: urbanitas, civilitas, humanitas. Urbanitas perché si contrapponeva alla rozzezza e alla ruvidezza del «villano», di colui che abitava nella villa; civilitas per sottolineare che l’affabilità era tipica del «civis» consapevole della sua dignità di cittadino romano; e infine humanitas, che ci sembra il termine latino più felice per definire quell’intreccio di amabilità, benevolenza, educazione, cultura, dolcezza, educazione di colui che dal medioevo venne chiamato «cortese» (da corte) e di cui ci ha dato un ritratto compiuto nel Cinquecento Baldesar Castiglione con Il libro del Cortegiano, ripubblicato ora da Einaudi con un saggio introduttivo di Walter Barberis.

La cortesia infatti non consiste semplicemente nelle buone maniere. È qualcosa di più profondo, come mi ricordò in seconda media un padre gesuita. Nell’atrio della scuola torinese, che si trovava vicino all’arsenale sabaudo, campeggiavano due imponenti cornici di legno, sovrastate dalle scritte «Albo dell’istruzione» e «Albo dell’educazione». Ogni mese incorniciavano i nomi, scritti in bella calligrafia floreale, di quegli allievi che si erano distinti nei due campi perché la buona educazione era considerata dai padri gesuiti pari alla istruzione. «Perché non limitarsi a segnalare la buona condotta, come nelle pagelle?», obiettai un giorno al padre Censore, che aveva il compito di fare rispettare la disciplina e compilava quegli albi. «Perché – mi rispose enigmaticamente – la buona creanza, come ha scritto san Vincenzo de Paoli, è metà della santità, e prima di lui san Francesco de Sales ha detto: ‘La santità è compitezza consacrata’».

Fui sconcertato da quella criptica definizione; finché un giorno, durante la ricreazione, volli riprendere il discorso. « Vedi – mi rispose il padre Censore – per diventare una persona cortese è necessario un primo fondamentale passo. Controllare le proprie pulsioni: sicché un’aurea regola comanda che tutti i gesti e i comportamenti che turbino l’armonia interiore vengano banditi; e insegna anche massime come: ‘Commiserarsi è infame’, ‘Compiacersi di aver ragione è odioso’, ‘Avere troppa coscienza di se stessi è sgradevole’».

Quella lezione continuò con la citazione di un brano di un cistercense, il piemontese cardinal Giovanni Bona che, vissuto nel XVII secolo, aveva tracciato il profilo mondano di un santo: «Pronto all’omaggio, tacito agli affronti, verecondo verso gli onori, difficile a indignarsi, affabile, trattabile, lieto e moderatamente giocondo, socievole senza disprezzo, grato, benefico, attraente». Certo, non era né è facile giungere a tanta perfezione per chi non abbia la vocazione alla santità. Ma un primo laico gradino lo si potrebbe salire cominciando a disciplinare il nostro io, a considerare gli altri non come strumenti per il nostro piacere, a provare interesse e rispetto per chiunque s’incontri. È questa benevolenza per l’altro la vera fonte della cortesia che si esprime mediante le buone maniere ma non vi s’identifica anche perché i codici di comportamento variano secondo i luoghi e le epoche. Esiste d’altronde una falsa cortesia, quella gelida ed eccessivamente formalistica, che denuncia un assoluto disinteresse per l’interlocutore.

Ci si deve infatti sempre domandare se quel che stiamo per dire o fare possa essere involontariamente minaccioso per i sentimenti di chi ascolta. D’altronde la cortesia è anche conveniente perché, sostiene un proverbio, «con le buone maniere si ottiene tutto»; il quale proverbio a sua volta sembra echeggiare una osservazione di Cicerone: «È difficile dirsi quanto possa conciliare gli animi degli uomini la gentilezza e la cortesia del parlare».

Ma si potrebbe obiettare che quelle regole valevano in una società gerarchica dove si delegava a fattori e famigli, appositamente educati fin dall’infanzia, il compito sgradevole di trattare con servi e villani per evitare possibili scortesie; e se eccezionalmente si doveva discutere direttamente con i secondi si poteva applicare un’aurea massima: «Il villano punge chi l’unge e unge chi lo punge». Oggi essa suona frustrante perché l’impugnatura della spada è generalmente in mano a questa specie, straordinariamente diffusa e potente grazie all’espansione cancerosa della volgocrazia, dove abbiamo l’ascetico privilegio di esercitare la nostra pazienza sperando di ottenere la perfezione spirituale col diventare psicologicamente invulnerabili all’altrui violenza.

Ma una modesta soddisfazione ce la possiamo ancora permettere citando al momento opportuno l’osservazione di Aristotele nell’Etica nicomachea: «È cortese chi non offende se non di proposito». Alla quale seguirà, inesorabile, la domanda: «Che cosa devo pensare di lei?». (Il Tempo, 17 giugno 2003)

@barbadilloit

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