(Stefano Marelli, vincitore del Premio Bancarella Sport con l’avvincente romanzo Altre stelle uruguayane, torna ora in libreria, sempre per Rubbettino, con il libro “Pezzi da 90”, di cui pubblichiamo un capitolo per gentile concessione dell’editore).
Italia 1990
Il rumore e le vibrazioni del motore mi uccidono. Ma è il prezzo da pagare, se vogliamo la fottuta aria condizionata. Finalmente, Diego dribbla gli ultimi giornalisti e sale sul pullman. Viene a sedersi accanto a me. Gli chiedo come è andata in sala stampa.
«Negro» risponde «Dovevi esserci». Quando per tutti io ero El Negro, Diego mi battezzò Galindez, perché diceva che ero identico al pugile. E ora che il mondo intero mi conosce come Galindez, lui torna a chiamarmi Negro. Tipico di Maradona. Aveva sedici anni
quella volta che mi cambiò il nome. Debuttava nella primera dell’Argentinos Juniors, dove io facevo il magazziniere. Da allora, siamo stati quasi sempre insieme. E devo a lui se oggi sono il massaggiatore della albiceleste. Dettagli.
«A un certo punto» racconta «Branco strappa il microfono a Dunga e dice: gli argentini mihanno drogato. C’era qualcosa nell’acqua che mihanno dato. Appena bevuto, ho cominciato a sentirmi male, intontito, spossato. Ciò che mi è successo è gravissimo, potrei aver subito danni enormiper la mia salute».
Diego sghignazza e continua «I giornalisti si mettono a ridere, giocatori e dirigenti brasiliani guardano Branco come fosse un poveretto. Salgado, il loro capo delegazione, si scusa con i presenti: macché droga – spiega – Branco non ha retto allo stress e ora cerca giustificazioni per la sconfitta. E a chi domanda se intendono fare ricorso alla FIFA, risponde: non credo proprio…».
«A te hanno chiesto nulla della borraccia?» «Claro que sì». «E che gli hai detto?».«Ho messo la maschera da scandalizzato: per favore, signori, siamo seri!».
Poi dice «Facciamo divertire un po’ i ragazzi». Raggiunge l’autista e gli parla all’orecchio. Starà armando una cazzata delle sue. All’improvviso, sentiamo ruttare gli altoparlanti. È Diego che regola il volume del microfono. E inizia il suo show.
«Alla vostra sinistra, Damas y Caballeros,» attacca, «potete ammirare l’imponente Stadio delle Alpi, dove nel giugno del ’90 l’Argentina eliminò il Brasile dal Mundial. Una partita perfetta quella degli argentini, capaci di andare in gol ogni volta che superavano la metà. È la verità. Un tiro, un gol. Pali e traverse ci hanno salvato il culo tre volte. Eppure, i ragazzi non reagiscono alle battute del loro capitano. Solo poche risatine stanche. Diego capisce che ci vuole altro.
«Ed eccoci ora, Señoras y Señores, al famoso Bivio degli Sfigati. Noi prendiamo per Caselle, piccolo aeroporto per i voli interni. Di là, invece, dove si sta infilando il pullman del Brasile, si va alla Malpensa, scalo specializzato nei collegamenti intercontinentali. Fate ciao ciao con la manina ai vostri avversari, che se ne tornano a casa. Anche stavolta, ovvio, erano i grandi favoriti del torneo».
Diego ha indovinato la canzone. I ragazzi cominciano a scaldarsi. Battute, urla, risate. In effetti, nessuno avrebbe scommesso un peso su di noi. Siamo campioni in carica, vero, ma la squadra è cambiata parecchio rispetto a quattro anni fa. E l’infermeria è piena. Neppure Diego sta bene, ha un alluce che pare un pompelmo. All’esordio, il Camerun ci batte 1-0. Lo fa con clava e mitra, fra i sorrisini compiaciuti di Havelange e dei suoi scagnozzi, che nei discorsi ufficiali hanno ripetuto seicento volte: questo sarà il Mundial del fair play.
Per fortuna. Torniamo in campo contro l’URSS. Vinciamo senza incantare (2-0), ma soprattutto perdiamo il portiere Pumpido.
Rompe tibia e perone scontrandosi con El Basco Olarticoechea, uno dei nostri. Con la Romania, infine, non riusciamo a difendere il vantaggio e terminiamo 1-1. Passiamo agli ottavi come ripescati, perché siamo fra le migliori terze. E Diego, in tre partite, non ha mai tirato in porta. La stampa di tutto il mondo ci dà morti e sepolti.
«Chi volesse qualcosa da bere» continua Diego, «non esiti a chiedere al Negro!». È la conferma, non ufficiale, dei loro sospetti. E finalmente si scatena il pandemonio: per me vino Branco bello fresco! A me invece una borraccia speciale! Una copa de Galindez gran reserva! Prese per il culo, imitazioni, canzoncine. Diego ha ripreso il controllo totale del gruppo.
Il solo rischio, ora, è che ai ragazzi scappi una parola di troppo. Ma il nostro CT Bilardo 120 ha due palle così: saprà evitare ogni fuga di notizie, nessun dubbio. Prima del match, solo tre persone erano al corrente de la trampa: Bilardo, che mi aveva ordinato di sciogliere del Roipnol in un paio di borracce; io, che avevo provveduto senza fare una piega; e Diego, ovvio. Il Brasile è troppo forte – aveva detto El Narigòn – Qualificato a punteggio pieno, gioca tre volte più veloce di noi. Se non facciamo qualcosa, perdiamo 5-0. E così ho preparato le borracce secondo le sue istruzioni. Paura? E perché mai? Bilardo è laureato in medicina: chi sono io per non fidarmi? Ginecologo, certo, ma pur sempre dottore. En el fùtbol vale todo, mi ha rassicurato strizzandomi l’occhio. In quel momento, ho ripensato al Bilardo giocatore, quando con la maglia dell’Estudiantes – lo sanno tutti – era maestro nell’esasperare gli avversari. La sua specialità erano spilli, aghi da siringa, spille da balia. Li infilava nelle chiappe dei rivali. E poi, sui corner, tirava sabbia negli occhi ai portieri. Senza contare le provocazioni verbali: corna, impotenza, malattie in famiglia. Quella squadra vinse tutto, in Argentina e nel mondo. Ma in campo ci andavano undici figli di mignotta.
Non a caso, il ciclo trionfale si chiuse quando la polizia dovette arrestare tre di quei fuorilegge. Li ammanettò sul campo, al termine di una mattanza vergognosa ai danni del Milan.
Un gran tipo, El Narigòn. Quando allenava in Colombia, cenava spesso con Pablo Escobar e Miguel Rodriguez, i mammasantissima de los carteles de Medellin y de Cali. E sapete qual è il suo maggior rimpianto? Non essere riuscito a metterli d’accordo. Ma ci andò vicino, pare. Ganar! De qualquier forma! – mi ha detto El Doctor ieri sera. Poi siamo andati a informare Diego. E, con lui, si è deciso di non dire nulla ai ragazzi. Troppo rischioso. Qualcuno magari non era d’accordo. E qualcun altro, pessimo attore, avrebbe finito per farsi sgamare. Nell’orfanotrofio in cui sono cresciuto, ho imparato che quando sono troppi a sapere una cosa, finisce sempre tutto a puttane.
A questo punto, l’importante era evitare che i ragazzi bevessero dalle borracce destinate ai brasiliani. Succede spesso, infatti, che i giocatori si dissetino dalle bottigliette degli avversari, durante le pause, quando medici e massaggiatori entrano in campo ad assistere un infortunato. Dunque, borracce trasparenti per noi, borracce verdi per Careca e compagni.
L’occasione buona si presenta al 39’. Ricardo Rocha stende Troglio, il francese Quiniou fischia. Io e il dottore ci fiondiamo ad assistere Pedrito. Si avvicinano alcuni giocatori. Passo una borraccia verde a Giusti e gli dico: non bere, fa’ solo finta, e dalla a un brasiliano. Lui capisce al volo. Con la coda dell’occhio, mi accorgo che anche Monzon ha raccolto una borraccia verde. Gli urlo di sputare immediatamente. Lo fa. Il nostro medico mi guarda interdetto, ma Diego subito lo distrae, chiedendogli del ghiaccio. Recupero la borraccia di Monzon, gli proibisco di mettere di nuovo le mani nella mia borsa, e gli allungo dell’acqua pulita. Intanto Giusti parlotta con Branco e, nel modo più naturale del mondo, gli offre da bere. Sono le 5 del pomeriggio
e ci sono 34 gradi: il brasiliano se la ciuccia tutta d’un fiato. Branco, fino a quel momento uno dei migliori, sparisce dalla partita. Nello spogliatoio non dice nulla, così ce lo ritroviamo in campo anche nella ripresa. Ora ce la spassiamo, dice Bilardo. Il laterale verdeoro è uno zombie. Tocca il primo pallone dopo un quarto d’ora, guadagna un corner, cade goffamente e impiega mezzo minuto per rialzarsi. Sbaglia i passaggi, commette falli stupidi, perde ogni contrasto. Visto che gioca proprio davanti alla nostra panchina, ci chiede di continuo cosa c’era nella borraccia. Caipirinha – rispondiamo noi bastardi – cachaça, batida de coco, vino de Mendoza. Una comica. Branco è il migliore al mondo sui calci piazzati – lo sanno tutti – spara bordate da cineteca. Quattro giorni fa, contro la Scozia, ha mandato all’ospedale Murdo MacLeod, che ha voluto fare il figo respingendo di testa una sua fucilata. Ebbene, oggi nemmeno riesce a prendere la rincorsa. Strascina i piedi fino al punto di battuta e poi molla cacatine fiacche contro la nostra barriera. Passano i minuti ed è sempre più allucinato. Prima di calciare un’altra punizione, si muove come un tergicristallo a destra e sinistra del pallone. Quando si decide a battere, pare disarticolato come il Ciao, quella merda di marionetta sbranata da un dogo che gli italiani hanno scelto come mascotte del Mundial. E svirgola ad almeno dieci metri dalla porta, sia in altezza che di lato. Insomma, un cinema, povero Branco. Poi Diego, a dieci minuti dalla fine, si beve l’intera difesa brasiliana e tocca per Caniggia, tutto solo davanti a Taffarel.
Il biondo non si fa pregare e il turno lo passiamo noi.
I ragazzi sono gasatissimi. La stanchezza della battaglia pare già svanita. «La Copa, la Copa…» ruggisce Diego nel microfono. «Se mira y no se toca» rispondono impazziti i compagni.
Qui lo dico e qui lo nego, Miguel Di Lorenzo detto El Negro detto Galindez.
@barbadilloit