Cari amici di Barbadillo,
la vostra richiesta di commentare i deludenti risultati elettorali della recente tornata elettorale mi fa piacere, ma al tempo stesso mi stupisce. La scomparsa della destra e la crisi del centrodestra al termine di quello che è stato definito il ventennio berlusconiano non hanno bisogno di spiegazioni, o meglio hanno tante spiegazioni quante, si parva licet, ne può avere la caduta dell’impero romano.
Perché cadde l’impero d’Occidente? C’è chi ha dato la colpa al Cristianesimo, chi alla corruzione dei costumi; chi ai latifondi e chi, come de Gobineau, alla commistione delle razze; chi almaltusianesimo chi all’avvelenamento da piombo delle condutture idrauliche. Un vecchio maniscalco una volta cercò di convincermi che i romani fossero stati sconfitti dai barbari perché non sapevano sellare i cavalli. Non ho mai cercato di verificare, però mi sono chiesto spesso se un impero di quelle dimensioni, afflitto dall’anarchia militare, dalla corruzione dei costumi e, come si direbbe oggi, dal relativismo etico non abbia resistito fin troppo a lungo alla pressione di popoli bellicosi e affamati ai suoi confini.
Perché è caduta la destra? Per la parabola di Fini? Perl’inadeguatezza dei cosiddetti colonnelli, alcuni dei quali in un esercito normale non avrebbero potuto fare nemmeno il caporale di giornata? Per colpa della persecuzione giudiziaria a spese di Berlusconi o dell’accanimento di Berlusconi nell’esigere lo scioglimento di An e la sua confluenza in un contenitore politico dai contorni indefiniti? O, più semplicemente, perché è venuto meno il clima politico in cui maturò fra il 1993 e il 1994 il successo della destra, caratterizzato dall’entusiasmo per la caduta dei regimi comunisti, dallo sdegno per Tangentopoli, dalla “storicizzazione del fascismo” figlia degli studi di De Felice e delle aperture craxiane al “socialismo tricolore”?
Ognuna di queste spiegazioni ha una sua logica, ma nessuna è di per sé esauriente. Del resto agli storici in erba s’insegna a diffidare diquella che Edward Carr definiva la “superstizione della causa unica”. Forse, però, i termini del problema andrebbero rovesciati. Invece di chiedersi il perché dei deludenti risultati elettorali della destra, sarebbe opportuno ribaltare il quesito e chiedersi per quali motivi avrebbe dovuto ottenere risultati positivi una forza politica che, pur avendo governato importanti Regioni e Comuni, pur essendo stata al governo del Paese per quasi dieci anni, pur avendo occupato con propri uomini rilevanti incarichi di sottogoverno e nella Tv di Stato, non è stata in grado di selezionare una classe dirigente, di elaborare una politica culturale, di sfruttare le opportunità della legge Frattini per inserire i propri uomini nei gangli vitali della pubblica amministrazione, e ora si rivela incapace persino di utilizzare le cospicue risorse della Fondazione Alleanza Nazionale per promuovere ricerche, organizzare eventi, concedere borse di studio. E per di più, dopo aver improvvidamente ripudiato l’eredità del corporativismo, si è trovata priva degli strumenti culturali indispensabili a interpretare una crisi economica che presenta inquietanti analogie con quella del ’29, lasciando a Tremonti e alla Lega il monopolio della critica al mercatismo.
Una rivista come codesta, che vive solo sul web, anche perché la stampa e la distribuzione costerebbero troppo, parla da sola, così come è fin troppo eloquente la parabola di un quotidiano come il “Secolo”, oggi disponibile nella solo versione telematica mentre negli anni di piombo era presente in tutte le edicole, insieme a ben tre settimanali, “Candido”, “Il Borghese” e fino al 1974 “Lo Specchio”. Tutto il resto, le debolezze di Berlusconi, gli errori di Fini, le inadeguatezze dei colonnelli, il malaffare di alcuni esponenti locali, la diaspora delle sigle, la selezione alla rovescia della classe dirigente, la concorrenza di Grillo nelle fasce giovanili e protestatarie dell’elettorato, persino l’errore di concentrare le operazioni di voto in una sola giornata, possono aiutare a capire ma non spiegano da sole una sconfitta che parte da un deficit intellettuale prima ancora che morale. Si può fare cultura senza farepolitica, ma non si può fare politica senza fare cultura. Lo sosteneva settant’anni fa Winston Churchill: non è cambiato molto da allora, neppure per chi come me, formatosi a vent’anni sugli “Uomini e le rovine”, ha terminato il suo lungo viaggio nella destra al tempo di “gli uomini e le sgualdrine”.