Quanto sia irrimediabile il disastro compiuto negli ultimi anni dalla Destra, lo dimostrano i commenti post-elettorali di chi l’ha rappresentata a tutti i livelli istituzionali e politici. E a questo punto, non so se le loro inutili e fastidiose analisi, al limite del grottesco, siano provocate dall’insipienza, indotte da un astuto calcolo o facciano parte dei tanti refrain in cui ognuno di noi – seppur con diversi gradi di responsabilità – quotidianamente si esercita.
Tra i dati emersi, uno è però inconfutabile. Il processo di modellamento dei consensi non deriva più dalle vecchie parole d’ordine le quali non attraggono l’elettorato innanzitutto perché gli sviluppi invasivi della modernità hanno conquistato ogni campo (sostanziale rivoluzione del mercato del lavoro, primazia della economia finanziaria sulla politica, ecc.) e sono di una potenza e complessità inaudita, ma anche perché vengono pronunciate da chi si arreso a questi condizionamenti esterni senza tentare un minimo di resistenza. E perciò non è affatto credibile.
Non dispero che in queste settimane ci sia pure chi tra i vecchi colonnelli e i nuovi caporali di giornata si accorga del danno arrecato al Paese – prima ancora che alla loro comunità politica – ed abbia l’accortezza di ritirarsi in qualche eremo ai confini del mondo. Di certo, i primi segnali non sono incoraggianti. Quasi tutti costoro si soffermano su una nuova eventuale casa per la Destra, su un nuovo modello, su nuove ripartenze. Come se fossimo in un corso temporale ripetibile e i cui risvolti positivi sempre a loro completo appannaggio. Nei giorni dispari ci parlano di rivoluzione liberale; nei giorni pari magnificano il socialismo nazionale di Marine Le Pen; in passato, innamorati dei Tea Party, avevamo balconi stracolmi di bandiere a stelle e strisce. Un attimo dopo eravamo amici di Putin. Quindi laicisti con veranda sul golfo di Montecarlo e poi papisti incatenati al verbo di Ratzinger, pronti a recitare vespri ad ogni piè sospinto. Di mattina garantisti, dopo pranzo giustizialisti. Federalisti se al governo con la Lega, difensori dei valori della nazione se in campagna elettorale.
E allora, di fronte a tutto ciò, lasciamo da parte le vecchie formulazioni. Mettiamo da parte il ricordo di intere nottate aspettando che si solidificasse come in un processo alchemico la colla per manifesti, e il cui particolare odore dava un effetto talmente straniante da invitarci ad ampliare a dismisura le riflessioni sugli ‘avvicinamenti’ provati da Hofmann e Jünger. Teniamo serbati negli anfratti più remoti del nostro cuore i volti e i sogni di quegli amici cari mai più rivisti.
Quel mondo non potrà essere più la chiave di volta per una comunione d’intenti. Altrimenti troveremo sempre qualcuno che proverà a toccare quelle corde mai sfibrate della nostalgia per stimolare quei sentimenti genuini solo per carpire il nostro voto.
Per quanto mi riguarda, i ricordi e le nostalgie non sono più disposto a metterli in comune con gli altri. Li tengo ben stretti, senza più svenderli al mercato del consenso elettorale. Poco importa, se l’accusa sarà di disfattismo. Il mondo è cambiato, e con esso tutte le questioni più rilevanti. E allora, almeno per un po’, stiamo lontani dai pifferai e dagli interpreti del déjà vu ed esercitiamo la disciplina del singolo prima di tornare alla Terra di Mezzo.