Pubblicato in edizione italiana uno dei più controversi testi del grande storico delle religioni romeno Mircea Eliade.
Le nozze mistiche tra filosofia e politica sono sempre complicate, scriveva Franco Volpi. È bene leggere queste parole in un duplice senso: se furono molti, durante i primi decenni del Novecento, quegli intellettuali che scelsero di scommettere su talune realtà politiche, provando a orientarle in senso metastorico e “spirituale”, d’altro canto, però, spesso e volentieri furono ignorati – se non addirittura emarginati – da quelle stesse realtà politiche nelle quali ebbero a credere. Monadi spirituali mai allineate, perennemente eterodosse, quintessenziate da un eterno dissenso che le escluse prima dai “libri paga” dei regimi e poi dagli scranni della cultura “alta” – derubricarli, come spesso è stato fatto, ad alfieri di quei politici da parte dei quali subirono diffide, scomuniche, finanche perquisizioni e più o meno tacite “messe al bando” o “congiure al silenzio”, è nella migliore delle ipotesi miopia storiografica, nella peggiore – e spesso più frequente – banale malafede. La loro testimonianza esistenziale è invece il segno di una libertà intellettuale irrinunciabile e tantomeno ipotecabile dal Leviatano di turno, sia esso “dittatoriale” ovvero “democratico”.
È in un simile orizzonte che possiamo collocare – di certo non senza riserve – il libro Salazar şi revoluţia în Portugalia, composto nel 1942 da Mircea Eliade. Per comprenderne la genesi, faremo riferimento al celebre Diario portoghese di Eliade, l’unico tra i suoi Journals intimes non sottoposto a revisione dall’autore stesso, come messo a fuoco recentemente da Giovanni Casadio (Mircea Eliade visto da Mircea Eliade, in Aa. Vv., Mircea Eliade, Mediterranee, Roma 2013). In esso troviamo osservazioni circa l’ascendente di Salazar – non costante, né subìto in maniera acritica, come ben ricordato da Sorin Alexandrescu (Il Portogallo visto da Mircea Eliade) e Horia Corneliu Cicortaş (Lo specchio portoghese) nell’edizione italiana del Salazar (Bietti, Milano 2013) – su Eliade.
Eliade arriva a Lisbona il 10 febbraio 1941. Nominato – da un governo patrocinato da re Carol – addetto alla cultura a Londra, è il generale (poi maresciallo) Antonescu a confermargli la qualifica, questa volta in Portogallo. La figura di Salazar emerge sin da subito nelle pagine portoghesi: nella seconda di queste, datata 28 aprile, si descrive un comizio del dittatore portoghese nella luminosa Praça do Comercio, antistante quell’ansa del Tejo che, secondo Fernando Pessoa, avrebbe potuto ospitare l’intera flotta portoghese. Salazar «leggeva con un certo trasporto, ma senza la minima enfasi, levando di tanto in tanto gli occhi dal foglio e guardando la moltitudine […]. Quasi neppure sentisse la schiacciante forza collettiva che si stendeva ai suoi piedi. In nessun caso ne era prigioniero, né tanto meno se ne lasciava suggestionare».
Due giorni dopo, Eliade evoca la figura del generale Óscar Carmona, «il provvidenziale presidente che, anziché fucilare Salazar, come sarebbe accaduto in Romania, lo ha fatto dittatore del Portogallo». Non è certo un caso che emerga immediatamente il luogo natìo dello storico delle religioni: come evidenziato da Alexandrescu, Eliade inquadra le sorti politiche portoghesi all’interno di un quadro squisitamente romeno. Se scruta i destini lusitani, lo fa con lenti romene.
Il 4 novembre del 1941, Eliade affida al proprio diario queste parole: «Sto raccogliendo materiale per un libro su Salazar e uno studio su Eça de Queiroz» (quest’ultimo, annunciato parimenti nella bibliografia del libro su Salazar, non vedrà mai la luce). Per comporre il suo studio, si avvalse, oltre a decine di volumi storici, delle testimonianze dirette di personaggi di spicco, come il poeta António Ferro, il generale Correia Marques e Manuel Murias, ma anche lo storico Alfredo Pimenta.
Questo studio, leggiamo nell’introduzione, è nato da una domanda: «È possibile una rivoluzione spirituale, che abbia come protagonisti uomini che credono, anzitutto, nel primato dello spirituale? Il Portogallo di Salazar è forse l’unico Paese al mondo ad aver tentato di rispondere a simili domande». Un forse, quello appena citato, probabilmente occasionale, ma di certo dotato di profondi significati. Come ricorda Cicortaş, Eliade si era già trovato di fronte ad altre convergenze di politica e spiritualità: la disobbedienza civile di Gandhi, dalle sfumature ascetiche, talune realtà cristiano-evangeliche anglosassoni e la Guardia di Ferro di Corneliu Zelea Codreanu.
Ciò che orienta le sue analisi è dunque una metapolitica che, sottraendosi alle contingenze storiche, le orienti, all’insegna della spiritualità. A detta di Eliade, Salazar mira alla «reintegrazione della nazione portoghese nel proprio destino storico», il che sottende a sua volta «la necessità di conservare la fede cristiana, latina ed europea», attraverso l’educazione delle nuove generazioni tramite «una concezione maschile, militare e romana dell’esistenza: la passione calma di fare il proprio dovere, vivere verticalmente, accettare con serenità il proprio destino». Non sono cenni occasionali, laddove si consideri che sono stati espressi da un uomo che avvertiva il nulla incipiente del tramonto di una civiltà, la cui matrice era essenzialmente «latino-cristiana» (23 settembre).
Sempre a proposito delle «lenti romene», una pagina di diario datata 31 marzo 1942 è dominata da un profondo travaglio interiore: «A pochi libri ho lavorato con un senso di disgusto come quello che mi domina e mi sfinisce da quando ho iniziato Salazar e la controrivoluzione in Portogallo» (questo il titolo originariamente ipotizzato). Per affrontare «un libro che non mi appartiene», scritto «controvoglia. E male», lo studioso ha messo da parte il progetto di uno studio su Camões – che egli leggeva direttamente in portoghese, al pari dei grandi classici lusitani – ma anche su Eça, come già ricordato (decisione che, con il passare degli anni, verrà giudicata sempre più severamente). Perché allora scriverlo? La motivazione emerge subito dopo: «La storia della rivoluzione e della controrivoluzione portoghese non manca di interesse e, soprattutto, penso io, di utilità per la Romania». Se, scrive, ha prediletto un libro di storia e ha rinunciato – almeno temporaneamente – a occuparsi di cultura, «è per servire il più possibile al mio Paese, per avere almeno l’illusione di stare compiendo il mio dovere in tempo di guerra». È in particolare la comune latinità di due Paesi agli estremi opposti dell’Europa (sostenuta anche nell’opuscolo Os Romenos, latinos do Oriente, pubblicato in Portogallo a un anno di distanza dal Salazar) – annota Alexandrescu – a determinare la scelta di occuparsi di Salazar, dedicandogli addirittura un libro. La vittoria dello spirituale in Portogallo, realizzatasi per il tramite di Salazar, avrebbe potuto valere come esempio – specchio – per la Romania.
Il 7 luglio del 1942, Eliade incontra personalmente Salazar. Gli pone svariate domande, una delle quali sul rapporto tra l’Estado Novo e le precedenti forme di governo, la cui politica aveva generato esecutivi di tre settimane che si alternavano a colpi di Stato: senza il loro progressivo esaurirsi, chiede Eliade, forse la (contro)rivoluzione non avrebbe potuto verificarsi? La risposta del suo interlocutore è semplicissima: «Il male non è creatore». Parole assai incisive, riferite da un Eliade che ormai ha preso interiormente commiato dal dittatore e dal proprio libro.
La notte del 29 maggio 1942, alle quattro e mezza del mattino, lo storico delle religioni conclude, stremato, lo studio, che consegna ad alcuni «Romeni di Rio», in partenza da Cais do Sodré: «Non riesco a credere che, finalmente, sono libero», annota. Verrà dato alle stampe a Bucarest e uscirà in autunno. L’autunno di un anno ma anche di una stagione storica. «Un ciclo si chiude»: quest’espressione (assai frequente nel libro su Salazar ma anche in molti altri legati alla cosiddetta Kulturcrisis), non sprovvista di elementi, per così dire, mitico-teologici, se da un lato indica la chiusura di una fase storica agonizzante, dall’altra nulla lascia presagire di quanto apparirà dopo. I macelli della Seconda Guerra Mondiale insanguineranno ogni profezia e vaticino.
A distanza di decenni, di questo anelito, deluso/eluso da vincitori e vinti, non rimane che un’istantanea in bianco e nero, a memoria di ciò che la tirannia del fatto compiuto non può – e non potrà – sopprimere. Novembre 1942. In piena guerra civile europea, ad Aranjez, un malinconico Eliade comporrà queste righe, diorama di un mondo votato al tramonto, tra le nebbie di un avvenire quanto mai incerto: «Il palazzo rosa. Le magnolie. Accanto al palazzo, gruppi di statue di marmo. Si sente il rumore delle acque del Tago che si riversano nella cascata. Passeggiata attraverso il parco del palazzo: numerose foglie in terra. È arrivato l’autunno. Gli usignoli. Il minuscolo labirinto di arbusti. Panchine, rotonde. Siamo gli ultimi».
*Mircea Eliade, Salazar e la rivoluzione in Portogallo, a cura di Horia Corneliu Cicortaş, postfazione di Sorin Alexandrescu, Edizioni Bietti, Milano 2013, pp. 314, € 24,00.