(Ricordiamo Carmelo Bene, scomparso il 16 marzo 2002, con un articolo di Marco Ciriello, scrittore campano anticonformista, autore del romanzo “Il vangelo a benzina” edito da Bompiani).
Poteva sprecare queste e altre vite ancora, Carmelo Bene, tanto non gli appartenevano. Poteva provocare, stupire, affascinare, edificare e distruggere, e se gli andava anche vivere. Il suo era un corpo provvisorio, uno dei tanti, che si poteva logorare, sfiancare, disperdere, e in fondo non gli serviva, lui era la parola. Unica. Lui non recitava, incarnava. Lui non portava in giro spettacoli, era uno spettacolo. Lui non metteva in scena testi ma li ricreava. Disertore dell’ordinario, fuoriclasse dell’oralità, detrattore della scena a favore di voci e musica. Eccessivo, intransigente, solitario. Una macchina attoriale autonoma e rigenerante. Sublime e distruttiva. Un imperatore, inquieto e trasgressivo, che era apparso alla Madonna. Divino, dandy, divertente come pochi. Un giocatore d’azzardo e un avventuriero prima, e poi un cerimoniere, un narratore di quelle imprese. Ascetico e burbero come Tommaso Landolfi, un D’Annunzio senza regimi né gesti eroici alle spalle ma che influenzava salotti e società, un Byron delle Puglie con le donne, enigmatico e nero come un racconto di Poe, un frammento di Amleto, Pinocchio, Lorenzaccio, la pazzia di Campana e la delusione di Majakovskij cucite insieme, attimi di meraviglia: attore senza pari, scrittore complesso, conversatore geniale, traduttore raffinato, lettore incallito, critico sfrenato, bravissimo cantante d’opera, ammiratore e amico di pochi. “Superintelligente”, come diceva di lui Sandro Pertini.
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Isolato e distaccato. Mai nato, mai vivo, un aborto, un morto che tentava di vivere, postumo a se stesso, suicidato e risorto, sprecato e rintanato. Monacale e mondano. Sempre estremo, sempre oltre, senza muoversi, non c’era bisogno, aveva tutto con sé. Vita e arte fuse, con-fuse. Scomponendo ha progettato. Teatro, cinema, letteratura, poesia. È stato attore, regista, scrittore, poeta. Non facendosi mai ingabbiare, rimanendo un libero pensatore fuori e dentro la scena, se per lui c’è mai stata questa separazione. Cominciò con un Caligola di Camus, che fece subito notizia a Roma, poi tornò a casa nelle Puglie. Il padre lo chiuse in manicomio e lui recitò per i pazzi, affabulando. Durò poco, ripartì per la capitale, mise su un laboratorio dove cominciarono le sue escursioni, con modifiche e aggiunte, su grandi testi come Pinocchio di Collodi, Amleto di Shakespeare, Salomè di Oscar Wilde. Poi fu la volta del cinema che gli diede la vera fama, con “Nostra Signora dei Turchi” (che fu un romanzo, poi uno spettacolo teatrale e infine un lungometraggio), “Capricci”, “Don Giovanni”, “Salomè” e un “Un Amleto di meno”, film che hanno superato i trent’anni e ancora allietano le notti di raitre. Ha sempre scandalizzato, nel modo migliore, sparigliando e anticipando. La sorpresa, la sua normalità. Ha giocato con la sua classe, ha usato il suo sapere, abusato della sua fortuna, spremendo la vita, le donne e gli uomini che si avvicendavano al suo fianco. Una centrifuga d’esistenze, avventure, whisky, spaghettate, caffé, bravate, corpi, scrittura, spettacoli, storie. Si ubriacava con Ruggero Orlando, sconvolgeva i Festival di Venezia e Cannes, litigava con Montale, passeggiava con De Chirico, Pasolini, Eduardo, era adorato dai grandi pensatori francesi e aveva nostalgia per tutto quello che non era mai cominciato.
Era una vertigine che non potevi fermare né raggiungere. Svettava e non potevi far nulla, restavi ammaliato a guardare il suo farsi spettacolo, il suo divenire arte. Incontrollabile, esagerato e antico.Riconoscevi in lui la grandezza del possesso, del dominio, del passato. Regale, ruvido, raro. Un bambino cosciente della propria dimensione, del dono, della visione, del linguaggio. E quindi bizzoso, ma non come una star, nel gesto c’era ironia, sberleffo, mai stupidità, era il dominio dell’assurdo, l’illimitato stupore dello scherzo. Impagabile. Appariva per essere (in)dimenticato. È stato assoluto e unico. Il suo cinema un sudario, il suo teatro uno specchio, la sua scrittura un volo sulle bassezze terrene, sentimenti e miserie. Fingeva di essere sempre altrove, in alto, ma aveva l’attenzione di un antropologo, la tv continuamente accesa, lo sguardo attento, la critica pronta: “è ora che la si finisca con questa assurdità che l’uomo sia nato per occuparsi del prossimo. La fraternità, la solidarietà sono sentimenti inumani, non ci appartengono. Se l’uomo è nato per qualcosa è per rovinare se stesso. Homo homini lupus, di Hobbes, va letto nel senso che l’uomo è lupo di se stesso, più che divoratore dell’altro”. Si è interessato anche alla religiosità – lui che credeva Dio un nostro prodotto – quando “la chiesa ha demolito ogni residuo di sentimento religioso di questo coma che è la vita”. È passato, annodando con la sua voce e i suoi gesti il meglio: Omero, Dante Alighieri, Leopardi, Camus, impersonandoli, modificandoli, trasformandoli e asservendoli, poi è tornato da dove non è mai venuto. Lui è là, dove manca. Qua, Dino Campana gli deve una nuova esistenza, la sua voce ha fatto più di cento critici.
Personalità complessa e completa. Impenetrabile e affascinante. Uomo spigoloso e umile, Carmelo Bene era un mostro che attirava sguardi, che istillava dubbi e donava splendori. Demoliva e sovvertiva, suscitava sentimenti contrastanti, mai indifferenza. La sua arte, è un e-vento fuori tempo, avendolo scavalcato, ignorato, vinto. Spettacoli, film, scritture, concerti. Vive ancora, anche se è morto da quattro anni, fantasma presente, spettro libero. Ossimoro, contraddizione, palindromo sul binario del tempo. Puoi leggerlo come ti pare, non importa coniugarlo. È un verbo infinito, una parola composta. Il corpo era solo un contenitore che serviva a dargli un viso, a dargli la possibilità di sprecare e sbagliare. La sua voce, invece, è nelle parole che ha fatto vivere, per sempre. Un lampo, un frammento di meraviglia, splendore indescrivibile. Cannibale di libri e pensieri, masticava, ingoiava e rielaborava come pochi. Considerava Schopenhauer un educatore permanente, e aveva incontrato, stregato e frequentato gente come Camus, Flaiano, Pasolini, Klossowski, Eduardo e Peppino De Filippo, Moravia, Elsa Morante, Pertini, Deleuze, Lacan, Foucault, Arbasino, Gassman, Emilio Villa e Jean-Paul Manganaro, che diceva di lui: “Era un’umiltà straziata e vera, storica, come la si potrebbe pensare oggi di un santo antico, un’umiltà armata di spada, armata di dolore”. Lo stesso che lui sospese a Bologna nell’ottantuno, davanti a duecentomila persone, nell’anniversario della strage, un evento irripetibile, portando la poesia di Dante dove c’era stato l’orrore, scalzo, fu innalzato sulla torre degli Asinelli e nel silenzio della città si fece verso. Scavalcando ogni immaginazione. C’era in Bene una purezza magnifica che lui sporcava con la vita e recuperava sulla scena o nella scrittura. Sperperava nei sentimenti, dissipava nei gesti, eccedeva nell’esistere per arrivare ultimo e consumato alla sua vera essenza: il teatro o la sua scomposizione, e lì riviveva, nell’agire vocale sulla scena, nell’essere parola, tono, gesto, personaggio. Sublimando, per poi tornar terreno, forse.