«Se avessi avuto ai miei ordini un esercito composto da soldati italiani e ufficiali tedeschi, avremmo vinto la guerra!». Questa frase, attribuita al Generale Rommel, sintetizza efficacemente il paradosso della nostra storia: un popolo tendenzialmente ricco di virtù, governato da una classe dirigente spesso non all’altezza. Non si tratta del solito luogo comune sugli «Italiani brava gente», ma di una drammatica verità, scritta nella Storia e confermata dalla cronaca. La disfatta di Caporetto e il tradimento dell’8 Settembre sono solo due tra gli innumerevoli esempi di soldati e ufficiali inferiori che si sacrificano a causa degli errori dei Generali, o del contegno vergognoso di un Sovrano.
E le cose non sono affatto cambiate: comandanti che abbandonano la nave che affonda; amministratori delegati pagati milioni per liquidare aziende sane; primari ospedalieri che si arricchiscono sulla pelle dei malati; docenti universitari senza requisiti; per tacere, ovviamente, di politici e magistrati. Basta una rapida scorsa ai giornali per rendersi conto che, a tenere in piedi quel che resta del nostro Paese, sono gli sforzi di tanti lavoratori, impiegati, insegnanti, piccoli imprenditori e professionisti che costituiscono la spina dorsale del sistema Italia, gravata dalle clientele e dall’irresponsabilità diffuse ai livelli più alti.
Un’occasione per rileggere, alla luce di questa triste dicotomia, la storia del Novecento, ci viene offerta da una novità libraria: Il Generale delle Camicie Nere, di Stefano Fabei (Pietro Macchione Editore, pagg. 662, euro 25), dedicata alla vita di Niccolò Nicchiarelli, uno tra i gerarchi fascisti più importanti e meno conosciuti. Volontario sedicenne nella Grande Guerra, squadrista, poi ancora volontario in Africa e comandante della Legione Tagliamento in Russia, Nicchiarelli ricoprì tutti i gradi della Milizia Volontaria Sicurezza Nazionale per assumere, durante la Repubblica Sociale Italiana, il ruolo di Capo di Stato Maggiore della Guardia Nazionale Repubblicana. Imprigionato nel 1945, fu processato e assolto, senza rinnegare le sue idee fino alla morte, avvenuta nel 1969.
La sua avvincente biografia è anche una irritante discesa nella burocrazia asfissiante che Nicchiarelli ha dovuto costantemente, e a volte inutilmente, combattere, a cominciare dalla surreale accusa di renitenza alla leva, mossagli perché, avendo falsificato i documenti per andare al fronte minorenne, risultò disertore quando la sua classe fu chiamata. Uomo riservato -di lui si conoscono pochissime foto, e molte di quelle riportate nei libri non sono sue- patì, nei giorni tragici della fine della guerra, l’accusa, forse ingiusta, di non aver saputo comandare le migliaia di volontari, ancora entusiasti , che avevano cercato invano di seguire il loro Duce. Fu proprio Nicchiarelli, infatti, a dare l’ultimo, confuso ordine di rompere le righe, a Como, il 26 aprile 1945, condannando così, involontariamente, tutti quei fascisti che, se fossero rimasti uniti, avrebbero forse avuto miglior sorte e sicuramente miglior morte. (da Il Giornale)
* “Il Generale delle Camicie Nere” di Stefano Fabei (Pietro Macchione Editore, pagg. 662, euro 25)