Il dolore pazzo dell’amore è un romanzo – ma si fa fatica a definirlo romanzo, nonostante ci sia effettivamente una bildung che si stende lungo le pagine – difficilmente collocabile in un canone. A primo acchito, per certi suoi modi narrativi, potrebbe ricordare Geologia di un padre di Valerio Magrelli, uscito a inizio anno. Tuttavia vi è una differenza enorme tra i due, ed è una questione tutta di visione della realtà, di “strumenti speculativi”.
Pensando alla concezione di realtà presente nel dolore pazzo viene in mente un pezzo di Julius Evola in Rivolta contro il mondo moderno:
«Se tradizionalmente ciò che oggi si chiama realtà non era dunque se non una specie in un genere molto più vasto, tuttavia non si identificava senz’altro l’invisibile col sovrannaturale. Alla nozione di “natura” tradizionalmente non corrispondeva semplicemente il mondo dei corpi e delle forme visibili sul quale si è concentrata la scienza secolarizzata dei moderni, ma altresì, ed essenzialmente, una parte della stessa realtà invisibile».
Ecco, sta tutta qui la differenza: in Buttafuoco questa concezione di natura popolata da visibile e invisibile è rimasta immutata, ereditata direttamente dai Padri senza passare per le lenti speculative del progresso: da ciò deriva la formula litanica della narrazione, scandita dal “bisogna credere”. Bisogna infatti credere ai cunti, ai santi, ai diavoli e a tutto ciò che fa parte della nostra terra, tutto ciò che ci viene tramandato dagli avi: solo così il presente, alla luce di questo passato, ma soprattutto alla luce dei ricordi brucianti d’amore – e dolore – , si vestirà di significato.
Nel mosaico delle rimembranze che il narratore va affrontando si riflette il divenire dell’anima. Dai racconti del barbiere, la cui bottega è uno scrigno di saggezza depositata dalle vite che ne entrano ed escono di continuo, agli album di famiglia, preziosi tesori accumulati e custoditi da Zia Lia. Ma – cuntala comu voi, direbbero da quelle parti – tutto questo rimestare nella memoria non è che la declinazione senza tempo dell’amore di cui l’animo brucia, e del dolore ch’esso – l’amore – lascia quando, al suo posto, non rimane che un’assenza. O meglio: rimane il ricordo a supplire la mancanza; così all’amore subentra il dolore, quel dolore pazzo che dà titolo al romanzo.
Trasuda, l’opera, di questo sentimento tormentato. Lo fa anche nei punti in cui la prosa si fa più riservata e le frasi smettono di spiegare, per darsi al suggerire. E, forse, è proprio in quei punti – dove lo scorrere delle parole tocca le parti più intime di chi scrive – che si dispiega, per chi lo sa leggere tra le righe, il valore più alto che questo dolore raggiunge.
Ma attraverso lo sfogliare gli eventi che la memoria conserva vi è anche la consapevolezza dello scorrere via dei giorni, così il dolore pazzo diventa medicamento, «anelito di cuore che è nostalgia», dolce illusione – e qui Leopardi docet – che fa di-vertere dalla morte. Le pagine culminano in in un esplosione barocca, un vivir desviviendo da “Trionfo della morte”, a cui fa da contrappunto una saggezza tutta mediterranea, islamica alla maniera guenoniana. Una maniera in cui romanità, mondo arabo ed Europa si mescolano quasi come in una chiesa o in un palazzo di Palermo.
Il luogo del paese, luogo di ricordi, Agira, diventa mondo popolato di forze visibili e invisibili, crocevia di Storia nuova e antica. Non si tratta, come direbbe Vittorini, di Sicilia come Persia. E’ proprio lampante, lo è sempre stato: è la Persia che è come la Sicilia, tutto il mondo vuole, vorrebbe essere Sicilia, ma quel paradiso di là dal mare, sta solo là, e forse solo quando è di là dal mare. E Dio lo sa quant’è bello.
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