Sul numero di settembre di questa rivista, nel presentare l’articolo di Giovanni Damiano “Su Giorgio Locchi”, rilevavo come in esso l’autore, sia pure in modo sintetico, toccasse uno dei problemi ancora irrisolti ma, comunque, centrali nella filosofia contemporanea: il non rinviabile superamento, nelle innumerevoli declinazioni che se ne sono date, tanto delle filosofie dell’essere, quanto delle filosofie del divenire. Se ciò è vero in generale, tale assunto assume straordinaria rilevanza e attualità in riferimento al pensiero di tradizione. Infatti, l’area intellettuale che con interesse ha guardato, fin dal secondo dopoguerra, alle elaborazioni teoriche prodotte in questo ambito, ha finito con il crogiolarsi nel mito dell’inevitabile e futuribile palingenesi storica. Un esempio capovolto di necessitarismo storico-.politico che condivide con la visione progressista-rivoluzionaria, il presupposto di fondo: l’esistenza di un ineludibile percorso storico predeterminato. In altri casi, minoritari in termini numerici, il determinismo ha lasciato il posto ad un volontarismo, di apparente matrice superomista, ma in realtà rinviante ai presupposti dell’antropologia cristiana, che dice l’uomo essere imago dei, assoluto, sciolto da ogni vincolo cosmico-comunitario.
Il risultato politico di questa dicotomica alternativa è stato fallimentare: disimpegno metafisico o velleitarismo azionista. In realtà, come nell’articolo ricordato ci suggerisce Damiano, memore della lezione di Locchi, non può darsi un destino rassicurante dell’origine. Questa, infatti, si dà solo nell’evento che, per definizione è libero. L’origine, in questo senso, manifesta una vocazione postmetafisica. Intenderla compitamente implica l’accettazione tragica del reale. La storia è sempre apertura inesausta, in quanto è il regno dei compossibili: in essa passato, presente e futuro si incontrano, si sovrappongono, si intersecano. Per questo può determinarsi tanto la ri-generazione dell’origine, quanto il suo inabissarsi definitivo o il suo temporaneo oblio. La storia è luogo polemologico e conflittuale e oggi, il momento rilevante del conflitto ha per protagonisti coloro che pensano ed agiscono per un Nuovo Inizio e coloro che vi si oppongo o vogliono ostacolarlo. Pertanto, è fondamentale ribadire che l’uomo è animale politico, destinalmente atto ad agire nella storia, al di là di ogni volontarismo radicale, pur nelle difficoltà che i “grandi cicli” impongono.
Le tesi di Damiano ora esposte, ci sembra siano state ribadite, confermate e utilizzate, in una silloge di suoi scritti dedicati all’esegesi del pensiero di Evola, da poco in libreria. Il titolo esemplifica la posizione dell’autore, Per un’altra modernità. Scritti su Evola, Ar edizioni, Padova 2013 (per ordini: info@libreriaar.com 0825/32239). In queste pagine, fin dal prologo, Damiano si fa latore della posizione teoretica e genealogica di Nietzsche, applicandola nei saggi che compongono il testo, alcuni dei quali comparsi anche sulla nostra rivista, alla genealogia della modernità di Evola, presentata dal filosofo nella seconda parte di Rivolta e in numerosi altri scritti. Si tratta, per ricorre ad una semplificazione, di un vero e proprio tentativo di individuare ciò che è vivo e ciò che è morto in Julius Evola, avendo come obiettivo prioritario una diversa genealogia del moderno. Al termine della lettura, a nostro parere, è possibile affermare che prevalgono gli aspetti vitali e propositivi dell’opera evoliana, rispetto a quelli considerati, in qualche modo, fuorvianti. Del resto, come precisa la quarta di copertina, l’indagine di Damiano non è certo “irrispettosa” nei confronti del tradizionalista.
La genealogia del moderno cui Damiano rinvia è in grado di rilevare e di non sottovalutare la costituzione plurale della modernità stessa. Questa idea, come lo studioso ha specificato in altri suoi lavori, è conditio sine qua non, per l’ideazione e la realizzazione di un’azione storico-politica mirata a instaurare un’altra modernità. Una modernità non più soggiogata dall’utilitarismo economicista e dalle logiche espropriative della partecipazione comunitaria, trionfanti nel mondo global eterodiretto e controllato dal Nuovo Regime della governance.
Momento saliente per la formazione di Evola, soprattutto per quanto riguarda l’esegesi della genesi della modernità, fu l’incontro con il tradizionalismo di Guénon. La morfologia della storia del pensatore transalpino indusse nel filosofo romano l’oblio della “tradizione mediterranea”, che un ruolo significativo aveva svolto in molti suoi scritti precedenti . Ciò comportò, dal punto di vista della “scelta delle tradizioni”, come ricorda l’autore nel primo saggio che apre la silloge, Un caso di scelta delle tradizioni: Evola e Bisanzio, la svalutazione della tradizione bizantina e l’orientarsi del pensatore tradizionalista verso il Sacro romano impero carolingio, quale luogo della “ripresa” imperiale nell’Età di Mezzo. In realtà, poiché Odoacre e il Senato romano avevano inviato a Costantinopoli le insegne, i bizantini avevano ben altra legittimità tradizionale da vantare rispetto ai carolingi. Evola interpretò Bisanzio come civilizzazione “femminile”, caotica e torbida, denotando, su questo tema, una subalternità alla storiografia di matrice illuminista. Altro significativo pregiudizio guénoniano, Evola utilizza nell’analisi del Rinascimento, come si evince dal secondo saggio della raccolta, Narrare il tramonto. Su Evola e il Rinascimento. Quest’età è esperita come l’epoca in cui si coagularono tutte le colpe moderne, individualismo e naturalismo materialista in primis, il cui ultimo esito sarà la Riforma, matrice del capitalismo. In quest’ottica, la filosofia neoplatonica rinascimentale e quella bruniana, altro non sarebbero state se non l’espressione dell’iniziale processo di inversione ideale, che condusse per gradi a materializzare lo spirituale per divinificare la materia. In realtà, ricorda Damiano:“Lungi dal rappresentare la piena consapevolezza di sé come individuo, l’uomo rinascimentale si riconosce in un orizzonte di senso radicalmente differente…si svela essere un nuovo inizio dell’uomo antico” (p. 29). Il Rinascimento fu esempio di civiltà del precedente autorevole, che non ri-propose alcun ritorno all’Antico, ma un suo nuovo inizio.
Il terzo scritto, Ascesa e declino dell’Europa. Colonialismo e decolonizzazione nella prospettiva evoliana, analizza i saggi del tradizionalista in tema. Dalla lettura si evince che il filosofo distingueva essenzialmente tra il colonialismo puramente mercantile e sfruttatore di stampo anglosassone, e quello costruttore, di matrice romana, a metà degli anni ’30 riproposto dall’impresa etiopica del fascismo. Il fascismo avrebbe dovuto, in questo ambito, rappresentare un tentativo di de-secolarizzazione dell’impulso proprio dell’ “epoca oceanica”, volta al controllo espansivo e mercantile dell’elemento acqua, per rettificarlo recuperando il senso di una “trascendenza verticale”. Negli articoli in argomento dei primi anni ’40, Evola presenta l’imperialismo inglese quale strumento della guerra occulta scatenata dall’ebraismo internazionale contro il fascismo.
Figura in questo senso paradigmatica è quella di Disraeli, interprete di primo piano dell’angloisraelismo. Tendenza, questa, che individuava nei popoli anglosassoni gli eredi diretti delle dieci tribù settentrionali d’Israele, scomparse dalla storia. Il ripristino dell’autentica vocazione imperiale degli europei era auspicato dal pensatore romano quale risposta inevitabile alla precarietà, evidente per lui fin dagli anni ’30, del dominio coloniale europeo. Per questo, egli fu radicale censore nel dopoguerra delle politiche di decolonizzazione, fase estrema, al contrario di quanto i più pensano, dell’occidentalizzazione del mondo: “…gli stessi popoli islamici non si stanno rendendo indipendenti dall’Occidente che in quanto si occidentalizzano, ossia che in quanto subiscono spiritualmente e culturalmente l’invasione occidentale” (65). Tale scelta ideale lo indusse a proporsi quale paladino dei valori di tradizione e di solidarietà europea. Il quarto articolo, Evola e l’America, chiarisce come la posizione evoliana in argomento sia strutturata e complessa. Per questo, non riducibile a un antiamericanismo superficiale e di maniera.
Pur essendo quello evoliano un giudizio fondamentalmente negativo sulla civilizzazione americana, mantenutosi tale nel corso del tempo, va comunque segnalato che lo studioso riponeva speranze in alcune situazioni che andavano delineandosi nella società statunitense, fin dagli anni ’50. Per esempio, il tradizionalista leggeva con una certa simpatia la letteratura beat, quale segnale di disagio di una generazione nei confronti del modello di sviluppo consumista. Oppure, giudicava interessanti le conseguenze che la gerarchizzazione industriale avrebbe potuto indurre nel sistema politico americano, per non parlare dell’attenzione con cui seguì gli uomini politici statunitensi che si battevano contro lo statalismo centralizzatore, tra gli altri Goldwater e Wallace. Altrettanto strutturata e articolata è, secondo Damiano, la concezione razziale di Evola, come emerge dallo scritto che chiude la silloge, Brevi note sul razzismo evoliano. L’autore ci ricorda che nel secondo dopoguerra fu lo stesso Evola a voler porre in secondo piano, all’interno del suo sistema di pensiero, il tema della razza. Peraltro, insistendo sul solo razzismo spirituale. Al contrario, la dottrina tradizionale della razza che Evola ripropose nel Novecento, ricorda Damiano, implica il riferirsi all’uomo integrale, costituito anche dell’elemento biologico.
Per quanto qui importa, pensiamo che i saggi più significativi della raccolta siano i primi due, nonostante l’interesse che anche gli altri presentano. Siamo infatti partiti dalla condivisione della tesi espressa da Damiano relativa al superamento e/o inveramento delle filosofie dell’essere e del divenire. Ecco, crediamo che ritornare ad un Evola finalmente svincolato da Guénon, consenta di vedere nelle sue posizioni di pensiero una filosofia in cammino verso l’esito, ad un tempo teorico e pratico, auspicato nel pezzo su Locchi da Damiano. Abbiamo volutamente utilizzato l’espressione “ritornare”, in quanto tale possibilità non era semplicemente latente nell’Evola più propriamente filosofo, ma era assolutamente esplicita, oltre ad essere nelle corde di altri autori che, come il filosofo romano, erano impegnati nei primi anni ’20, nell’inveramento degli esiti, esclusivamente gnoseologici, dell’attualismo. Tra essi sicuramente Andrea Emo. Stando alle acquisizioni teoretiche maturate, a proposito della Fenomenologia dell’individuo assoluto di Evola, da Massimo Donà, il filosofo della tradizione, tematizzando nell’opera ricordata la possibilità dell’impossibile, fu latore di un pensiero radicale ed essenziale, dotato di straordinaria potenza teoretica. Egli indicò agli uomini del proprio tempo l’evenire dell’origine, in una filosofia della Libertà/Potenza che, pur avendo allora i tratti del retaggio volontarista, lì perderà definitivamente in Cavalcare la tigre, opera nella quale il pensiero evoliano sarà capace di riconquistare la sua vocazione cosmica proponendosi, inoltre, quale filosofia dell’esistenza, senza scadere, si badi, nell’esistenzialismo.
Conclusivamente, nell’invitare il lettore a riflettere sulle pagine del libro presentato, auspichiamo il sorgere di un dibattito sui temi che connotano e/o sono legati alle filosofie dell’essere e a quelle del divenire. Confrontarsi con essi, con la logica dicotomica centrata sul principio d’identità e sul tema dell’immunitas logico-politica che le è conseguente, oppure analizzare il tema della “contaminazione” essere/nulla nella prospettiva della filosofia dell’espressione di Giorgio Colli, o nei Cosmici Monacensi, o nel filosofo francese Jean Beaufret, implica l’apertura di cammini di pensiero e di vita capaci di condurre in direzioni diametralmente opposte a quelle seguite dalla modernità dispiegata, oltre ogni determinismo storico-esistenziale. Questi percorsi possono, davvero, essere auspicio di un nuovo inizio.
* da POLITICAMENTE ANNO VIII, N. 86 – ottobre 2013