Ogni volta che mi illudo di avere imparato a scrivere, Piero Buscaroli mi rimanda sui banchi di scuola. Prendo appunti, studio la costruzione della pagina, mi sforzo di nuotare senza annegare nei riferimenti, nei suggerimenti, nella sprezzatura stilistica con cui tutto è raccolto e come rilegato. Una nazione in coma (Minerva editore, 569 pagine, 19 euro), il suo nuovo libro, conferma questa sudditanza e la colora di malinconia, perché alcune delle parti che lo compongono, penso alla Vandea e a Charette, all’Italia in guerra e al Vietnam, all’infame mattanza dei cosacchi, ai ritratti di Benoist-Mechin e di Longanesi, uscirono su questo giornale quando ne dirigevo le pagine culturali e mi illudevo, anche qui, che le ragioni dei vinti potessero avere una tribuna e un senso. C’erano ancora i dimafonisti, ma Buscaroli odiava dettare («il suono della mia voce mi fa orrore» diceva) e i fax, di cui non si fidava. Così settimanalmente arrivavano sul mio tavolo delle buste gonfie di cartelle dattiloscritte, immagini, consigli e rampogne. Messe in pagina, divenivano paginoni, e a riprenderli oggi in mano uno capisce che, anche giornalisticamente, si è chiusa un’epoca. Le riforme grafiche hanno ridotto gli spazi e imposto la brevità, la paura-alibi di annoiare il lettore ha fatto il resto. E poi, di giornalisti-scrittori come Buscaroli si è perso lo stampo.
Scriveva Cioran che «cadere dall’eternità nel tempo fu, finora, la regola. Ma si può cadere più in basso: cadere perfino fuori del tempo. Non è affatto escluso che questa esperienza diventi, un giorno, da individuale, un fatto che ci riguarda tutti». Questa profezia è alla base di Una nazione in coma, nel senso che lo informa e insieme lo contraddice, racconta di un futuro senza speranza e però puntigliosamente elenca ragioni e torti, rettifica e si indigna, maledice, persino.
È un libro di memorie sui generis, ridotte al minimo quelle familiari, rivendicate quelle di testimone di un’epoca, il secondo dopoguerra, vissuto portandosi sulle spalle il peso di ciò che, ancora ragazzo, gli era franato sopra cucendogli addosso lo status di sconfitto. Ci sono dei lutti che si portano come decorazioni.
Che la sconfitta riguardasse tutti, l’aveva capito perfettamente, ma invano, Benedetto Croce, di cui Buscaroli riporta quel discorso contro la firma del Trattato di Pace del luglio 1947, che una nazione degna di questo nome avrebbe dovuto trasformare in lettura d’obbligo fin dalle elementari. «Noi italiani abbiamo perduto una guerra, e l’abbiamo perduta tutti, anche coloro che l’hanno deprecata con ogni loro potere, anche coloro che sono stati perseguitati dal regime che l’ha dichiarata, anche coloro che sono morti per l’opposizione a questo regime, consapevoli come eravamo tutti che la guerra sciagurata, impegnando la nostra patria, impegnava anche noi, senza eccezioni, noi che non possiamo distaccarci dal bene e dal male della nostra patria, né dalla sua vittoria né dalla sua sconfitta».
Nel suo opporsi alla firma del trattato, il filosofo dell’idealismo si opponeva non solo all’idea, infelice e infame, che la Seconda guerra mondiale l’avesse persa il fascismo e vinta invece gli italiani, ma anche alla pretesa dei vincitori «di un giudizio morale e giuridico sull’Italia e la pronunzia di un castigo che essa deve espiare per redimersi». Chiosa Buscaroli che «scrostata la maschera della commedia democratica e della virtuosa ipocrisia messa a nascondere l’eterna vendetta, Croce rifiutava, fin dalla sua prima apparizione, la nuova morale politica che sarebbe diventata, nel mezzo secolo democratico, dominante e senza opposizione possibile». Era il «lavaggio del carattere» quello che si voleva, e che a sessanta e passa anni di distanza ci rimanda l’immagine di un Paese senza carattere, privo di dignità e di orgoglio. Finis Italiae.
Di questo cammino che segna il nostro ritorno a ciò che fu un’espressione geografica, Una nazione in coma registra fedelmente i passi: «È l’Italia – scrive Buscaroli – che cessa di partecipare alla grande storia, e beata poltrisce sulle glorie, la storia e le ambizioni dei suoi mille municipi, delle sue cento contrade. È l’Italia indaffarata e laboriosa degli individui, ma priva di ogni aspirazione e speranza. È l’Italia guelfa, municipale e democratica, clericale e comunista da sempre, che castiga le sue minoranze ghibelline, i suoi sognatori senza i piedi per terra sulla terra, senza un solido appoggio nelle reali forze; eppure persuasi, per antica esperienza, che l’Italia savia e coi piedi per terra è l’Italia peggiore: è l’Italia di oggi perché è quella di sempre».
Zibaldone di incroci, digressioni, ritratti ad hoc (Soffici e Messina, Paratore e de Vergottini, Praz e Cardarelli), Una nazione in coma è anche un vertiginoso compendio di due secoli di storia, la rivoluzione francese e «lo stupido secolo XIX» che ne discende, il suicidio dell’Europa in due guerre mondiali, con il suo contorno di olocausti umani e olocausti artistici: «La cancellazione delle opere dello spirito, del genio, del lavoro di un popolo, prolunga il crimine oltre la perdita della generazione in un certo tempo vivente. Rende l’olocausto ancora più odioso». Ma c’è spazio anche per «l’universalismo della chiesa» come «non un’invenzione originale del cattolicesimo, fu succhiato dalla romanità»; per una messa a punto sul provincialismo da caffè della cultura italiana d’antan: «Non mi pare che abbia diritto di insolentirla un’età che a quella tribuna, poverella di udienze e di guadagni, ha sostituito le soste di letterati e politicanti, giornalisti e pittori presso le scimmie male ammaestrate dalle televisioni» .
Una nazione in coma non è un libro omogeneo e, essendo un libro di parte si presta a critiche e messe a punto. Ma nel caso specifico, non ho alcuna voglia di sentirmi super partes .
* da Il Giornale
@barbadilloit