In un articolo apparso qualche tempo fa sul Sole 24 ore intitolato “Paesaggio: ecco come diamo i numeri” Salvatore Settis è tornato per l’ennesima volta (finora inascoltato dalla classe politica che siede in Parlamento) a parlare di paesaggio e, in particolare, ad affrontare la questione relativa all’impatto dell’edilizia sul paesaggio e sul consumo di suolo. E lo ha fatto ponendo l’accento su quello che possiamo considerare un peccato d’origine in materia di norme: il divorzio tra tutela dell’ambiente e politica urbanistica.
Per la verità, già nella legislazione d’epoca fascista c’era stato un “mancato raccordo fra tutela dei paesaggi (legge Bottai, 1939) assegnata alle Soprintendenze e pianificazione urbanistica controllata dai Lavori Pubblici.” Entrambe le leggi, però, contenevano dei correttivi contro l’eccessivo consumo di suolo, sancendo la supremazia dello Stato sull’interesse privato. Successivamente, il “peccato normativo” si è aggravato con la Costituzione Italiana che “assegnando allo Stato la tutela del paesaggio (art. 9) e a Regioni e Comuni le competenze urbanistiche (art 117) ha ulteriormente moltiplicato le competenze.” Fino poi a giungere all’attuale situazione normativa, frutto del pressappochismo della casta politica e della perdita del senso dello Stato (l’interesse collettivo) , vale a dire “al disordinato accavallarsi delle nozioni giuridiche non solo di paesaggio (di competenza statale), ma anche di ambiente (con un proprio Ministero) e di suoli agricoli (con relativo Ministero).”
La ricostruzione postbellica fu di fatto l’occasione per il saccheggio del territorio. Emblematico a questo proposito è il film di Antonioni L’avventura (1960), dove le scene iniziali lasciano intravedere lo scempio di Roma da parte dei palazzinari. Di grande rilievo, anche sotto il profilo della teoria economica ed etica della decrescita, l’annotazione che fa per inciso Settis: fu proprio allora, nella ricostruzione indiscriminata e famelica seguita al dopo guerra, che si è radicato uno dei pregiudizi con cui più bisogna fare i conti e che è duro a morire, cioè che l’edilizia sia un fattore trainante dell’economia. E’ vero invece che spazi notevoli di occupazione utile si aprono nella manutenzione, nella ristrutturazione energetica degli appartamenti e in generale nella riconversione ecologica degli edifici, come ha dimostrato Maurizio Pallante nei suoi saggi. Peraltro, secondo il rapporto Ance-Cresme dell’ottobre 2012 il 10% del territorio italiano è a rischio idrogeologico, il 44% a elevato rischio sismico, mentre i danni si calcolano in 3,5 miliardi di euro l’anno. Le piogge di questi giorni con gli ennesimi disastri e vittime sono la conseguenza di un mancato governo del territorio da parte dello Stato.
La proposta di Settis per superare il vicolo cieco in cui ci troviamo è, non a torto, quella “di ricomporre in uno questi aspetti, avendo di mira il principio costituzionale dell’utilità sociale”. In altre parole, bisognerebbe adottare una nuova politica del territorio che misuri “la necessità di nuove edificazioni in relazione alle esigenze abitative, tenendo conto di fattori spesso trascurati: l’incidenza dei fabbricati abbandonati o degradati suscettibili di riuso e la quantificazione delle unità abitative di recente costruzione che sono rimaste invendute o sfitte”.
Sta di fatto che la sovrapposizione di competenze tra enti territoriali e Stato costituisce non solo un caso di cattiva amministrazione, ma anche un fattore che contribuisce al dissesto del territorio. Non a caso, agli Stati Generali della Green Economy, tenutisi a Rimini il 7 e l’8 novembre 2012, l’associazione ambientalista Fare Verde aveva suggerito, tra le altre, la proposta di una riforma in senso bioregionalista del titolo V della Costituzione (che, ricordiamo, fu modificato in senso peggiorativo nel 2001 dal centro-sinistra): al posto delle grosse e grasse Regioni introdotte nel 1972 e della eccessiva ripartizione del territorio in Provincie e in innumerevoli comunità montane e non, si potrebbe prevedere un solo grado intermedio tra Stato e Comuni costituito dalle Bioregioni (all’incirca 50 Bioregioni contro le attuali 20 Regioni e le 110 Provincie), che rifletterebbero meglio la storia e l’assetto geo-culturale dei territori. In tal modo si ridurrebbero i costi, le inefficienze e il moltiplicarsi dei centri decisionali e di potere.
Scriveva Marcello Veneziani in un conciso e pregnante pezzo apparso sul Giornale dell’1/2/12 intitolato “Via le Regioni e via le Province (un’ipotesi bioregionale?): “Le regioni sono delle costose forzature che assemblano realtà storiche e geografiche eterogenee: Emilia e Romagna, Trentino e Alto Adige, Friuli e Venezia Giulia, sono solo le più evidenti. E le province furono una forzatura ottocentesca sul modello delle prefetture napoleoniche. In realtà ci sono aree intermedie tra le province e le regioni che riflettono la storia, la vita e l’assetto geoculturale del nostro Paese. Sono 50/60 realtà ben più coerenti. Per esempio, le Puglie sono almeno tre: il Salento, la Daunia e il Barese. Ma lo stesso direi della Sicilia, vera Trinacria, o la Campania – tra sanniti-irpini, salernitani e napoletani – , la Lucania spaccata tra Cilento e Basilicata,e l’alto Lazio o Tuscia e il basso Lazio ciociaro, più l’area romana. E la Toscana, con la Maremma che guarda a Siena, Pisa che guarda a Livorno e alla Lucchesia, e l’area fiorentina- aretina. E l’Emilia diversa dalla Romagna e dal Parmense”.
L’idea di un riordino territoriale dello Stato ha trovato di recente una inattesa ed autorevole sponda nella Società Geografica Italiana che ha proposto una nuova divisione del territorio in 36 dipartimenti presentando un corposo e meditato studio scientifico venerdì 8 marzo 2013 in occasione del convegno “Il riordino territoriale dello Stato. Riflessioni e proposte della geografia italiana”.
La proposta di eliminazione delle 20 Regioni italiane e delle 110 Province con la creazione di 36 Dipartimenti è stata poi ripresa e rilanciata in un magistrale articolo di Sergio Rizzo intitolato “Il sogno di un’Italia senza Regioni e Province ma con 36 Dipartimenti” pubblicato sul Corriere della Sera del 24/7/2013, che meriterebbe di essere citato per intero. Ci accontentiamo di riportarne e farne nostre la conclusioni: “Per la prima volta, da quando esistono le Regioni, sul tavolo del governo c’è una proposta che sia pure come caso di scuola ne mette in discussione la loro stessa esistenza: sulla base di quell’assunto del famoso geografo Calogero Muscarà che nel 1968, un paio d’anni prima che venissero create, le definì «una conchiglia vuota sul piano identitario». Un guscio che però negli anni si è riempito di potere e soprattutto denaro. Tanto denaro: ogni anno le Regioni gestiscono più di 200 miliardi di euro. Oltre un quarto di tutta la spesa pubblica.” (Sergio Rizzo)