A Bologna, una mostra per Arturo Martini, Creature, il sogno della terracotta (Palazzo Fava, 22 settembre/12 gennaio 2014) e, in contemporanea, a Faenza, un’altra esposizione di opere martiniane, Armonie, figure tra mito e realtà ( MIC 13 ottobre/30 marzo). E’ un revival dell’opera di questo artista. Sul Corriere della Sera lo hanno ricordato con un paginone. E lo hanno riletto più come l’autore del primo monumento della Resistenza e meno come un artista aderente a Valori plastici. Sembra quasi che non ci sia la fermezza di guardare dentro la storia di una intellighenzia artistica che raccontò il proprio tempo, il tempo fascista, il tempo di un paese che cercava linguaggi moderni.
Arturo Martini fu artista novecentesco, artista civile, tanto da essere processato nel 1945. La sua colpa: Avere raccontato un ‘paese totalitario’ adornando le piazze, le università, i tribunali italiani. Però, nella ricostruzione del Corriere, un pensiero evidenziato è quello dei rapporti di Martini con il fascismo, rapporti che sarebbero stati esclusivamente di origine commerciale. Cioè, Martini moriva di fame e il regime gli dava lavoro (!) (Elena Pontigia, Corriere della Sera, 19 settembre 2013).
Presentando così questo scultore, non si spiega l’arte martiniana; la quale è segno scultoreo del ritorno all’ordine ed è profondamente linguaggio per la comunità. E proprio con queste idee andremo a Bologna. Per visionare sculture e storicizzare processi artistici, e, prioritariamente, senza nascondere le vicende di una generazione che creò linguaggi pensando all’idea di nazione o al superamento dell’ abisso decadentistico. Inoltre, altra identità, che emerge in questa ultima rivisitazione critica, è quella di un Martini poverista, il quale costruisce un mondo sognante di argilla rossa, di materiale povero, di ‘poesia della precarietà’.
Non ci siamo. Il Martini, da rileggere oggi, è il creatore di simboli, di simboli per la comunità. Per troppi anni, purtroppo, i critici vollero dimenticare il significato della simbolicità della Minerva armata dell’università La Sapienza di Roma. Il Martini da cercare, insomma, non è leggibile in chiave post-moderna. Da sempre sappiamo che la sua opera palesa la ricerca della forma, il rapporto con la natura, e la narrazione assoluta del corpo umano.
E’ vero anche che lo scultore osservava con stanchezza i significati del suo lavoro. Egli si sentiva ormai schiacciato dalla celebrazione di divinità o dal linguaggio di una scultura pubblica retorica. E’ vero che se Martini non fosse morto nel 1947, la sua opera sarebbe andata verso un’arte spontanea, verso una “facoltà naturale eterna… come il filo d’erba.” (da La scultura lingua morta, 1945) In poche parole egli avrebbe contraddetto liberamente il proprio passato. E tutto ciò si inquadra nelle evoluzioni delle idee di un artista.
Questa mostra bolognese quindi stimola la riflessione. Invita a mettere ordine intorno caratteri storico-artistici spesso caduti in dimenticanza. E conduce il critico a riprendere i nomi di Martini, Sironi, Carrà, Funi, Drudeville, Boccasile, cioè i testimoni di una generazione che reagiva alla decadenza occidentale e alla deriva bolscevica. In questi artisti restò forte l’idea di un’arte engagè nella misura in cui questa potesse essere espressione del cambiamento culturale, ma senza perdere di vista l’antico e la dignità dell’individuo sconvolto dalla storia.
In un clima culturale rasserenato, vi sono esperienze artistiche su cui avviare una nuova ricostruzione organica storica. Cioè una ricostruzione che abbia come punto di forza un’analisi sulle somiglianze, sulle differenze e sulle diverse evoluzioni ideologiche degli artisti del periodo fascista. E tutto ciò per un apprezzamento conoscitivo di una generazione o battuta dagli eventi del secolo breve o dalle numerose parzialità ideologiche. La mostra su Arturo Martini impegna tutti in questo senso.