Sarebbe bello salutare la pandemia con una grande mostra. E mettersi alle spalle una tragedia (anche) grazie alla vivacité dei quadri. Sarebbe una ripartenza per dire che il settore dell’arte ha resistito. E resiste; e fa ciò attraverso l’esposizione bolognese : dieci quadri di Giorgio Morandi, dieci nature morte, che scandiscono il tempo delle cose amate, in mostra con un rigenerato laboratorio – bottiglie, teche,.. – che fa rivivere la casa morandiana di via Fondazza.
Con Re-collecting Morandi racconta. Tono e composizione nelle sue ultime nature morte, a cura di Giusi Vecchi, dal 4 febbraio al 11 aprile, i capolavori morandiani sono fruibili assicurando la « tutela dei visitatori » per evitare il rischio dei contagi. Il che adesso rappresenta un evento significativo, grazie ad un artista mondiale che lasciò un immenso patrimonio, dal secondo dopoguerra agli anni Sessanta, la sua ultima stagione.
Di Giorgio Morandi, delle sue atmosfere sospese nello spazio e nel tempo, sappiamo tutto. Però sia consentito il racconto dell’uomo, della sua essenzialità. La chicca è un aneddoto (ritrovato) di Domenico Cantatore, pittore pugliese. C’è in tale ricordo un’immagine di Morandi, la sua anima pacata che generò un linguaggio unico di forme, contemplate nell’esposizione bolognese, all’interno dell’ex Forno del Pane. Un linguaggio, straordinario tra il sogno e la realtà, di un uomo che fu futurista, novecentista, e poi diventò se stesso, il poeta delle cose. Ma, prima di tutto, un uomo mite che, al collega Cantatore, domandò, «Mi dica, è vero che a Milano si vendono i miei quadri a ventimila lire? Ma sono proprio ammattiti».
Ed è altrettanto vero che la metafisica dei suoi oggetti crea oggi la voce sottile di una nuova fiducia, cioè di una nuova mostra.
Re-collecting Morandi racconta. Tono e composizione nelle sue ultime nature morte, a cura di Giusi Vecchi, dal 4 febbraio al 11 aprile, Museo Morandi – ex Forno del Pane – dal martedì al venerdì dalle 14.00 alle 19.00, in Via Don Giovanni Minzoni a Bologna.
Bell’articolo. Vorrei aggiungere che Morandi, artista inizialmente incompreso dall’ambiente accademico, dovette a due esponenti intelligenti della cultura fascista, Leo Longanesi e Giuseppe Bottai, la cattedra all’Accademia di Belle Arti di Bologna che gli consentì in momenti difficili di sopravvivere (ci fu un periodo in cui per sbarcare il lunario insegnò disegno nelle scuole elementari di montagna). Collaborò al Selvaggio di Maccari e all’Assalto, organo del fascio bolognese, su cui pubblicò nel 1928 una solenne professione di fede fascista (“Ebbi molta fede nel Fascismo fin dai suoi primi accenni, fede che non mi venne mai meno neppure nei giorni più grigi e tempestosi“, scrisse riferendosi probabilmente ai giorni successivi al delitto Matteotti). Non dipinse soggetti propagandistici, ma la sua opera fu ugualmente apprezzata e Mussolini acquistò una sua natura morta, scorgendo forse in essa l’affermazione dei valori ruralistici del fascismo strapaesano. Altamente considerato, poté comodamente dipingere e lavorare come incisore, tanto che all’Accademia di Bologna i suoi corsi vennero concentrati il venerdì e il sabato, per lasciargli libero il resto della settimana.
Durante la guerra frequentò alcuni antifascisti e conobbe una breve detenzione, provvidenzialmente interrotta dall’intervento di Leo Longanesi, suo grande estimatore. Nel dopoguerra nonostante i suoi timori conservò la cattedra, che pure gli era stata conferita per chiara fama in epoca fascista, e conobbe una stima crescente, ma anche gli attacchi di critici comunisti come Trombadori, che su “Rinascita” nel 1945 lo accusò di decadentistico disimpegno.
Più passa il tempo e più mi rendo conto che pochi uomini come Bottai, di cui per altro non condivido le idee, furono straordinari scopritori di talenti e di come grazie a lui il fascismo abbia fatto per la cultura – nel senso più banale ma non per questo meno importante di sostegno economico ad artisti e letterati – molto più di quanto non abbiano fatto settant’anni di democrazia.