Taccuino Coronavirus/38. Queste lunghe e interminabili domeniche senza pallone…

Oggi è domenica, una domenica delle palme segnata dalla Messa in streaming e dall’assenza del ramoscello benedetto. Del resto, ci hanno detto e ripetuto che siamo in guerra, e la palma – in origine: l’ulivo – è simbolo di pace… Ma non si ferma qui la nostalgia delle domeniche di una volta; di quelle domeniche, dico, in cui dopo quello sacro, c’era il rito profano del calcio. Fra le cose che nemmeno gli esperti, nemmeno i “responsabili” conoscono, oltre alla natura del coronavirus, alle terapie per debellarlo, ai tempi della sua scomparsa (speriamo!), c’è il destino del campionato di calcio e del suo contorno – nazionale e internazionale – delle Coppe.

 

Voi direte: di fronte alla tragica emergenza che stiamo vivendo, che importanza può avere il calcio? In parte la domanda è fondata, ma solo in parte: in effetti, fra le cose che mi mancano, quel rito laico non più domenicale occupa uno degli ultimi posti. Certo, il calcio è anche divertimento, giostra di campanili, simulazione della guerra, occasione per riattivare entusiasmi troppo spesso sopiti o mortificati in altri ambiti della vita quotidiana; ma per me, ora che – da molti anni, ahimé – non lo pratico più e sempre più di rado frequento le gradinate con vista sul rettangolo verde, quello spettacolo è il rito televisivo da consumarsi preferibilmente con la “giusta” compagnia, ma anche da solo (e in tal caso, oggi mi appare quasi come un presagio dell’isolamento e della socializzazione virtuale alla quale siamo ristretti); un rito che innesca una catena ininterrotta di ricordi, che hanno segnato il mio percorso nei decenni.

 

Vidi la mia prima partita, al Vomero, contro la Spal: ero un bimbetto ignaro di quelli che sarebbero stati i misteri di quella giocosa disciplina, alla quale mi stava iniziando Diego (anche qui, nomen omen), tifoso e amico di mio padre, che al calcio non s’interessò mai: per me, fu il classico “morso della serpe”, di cui ancor oggi porto il segno. Seguirono altre sporadiche presenze, la più fortunata – e memorabile – delle quali ho segnato tra le ricorrenze fauste del mio calendario: c’ero anch’io quel 6 dicembre del 1959, all’inaugurazione dello stadio S. Paolo, quando battemmo la Juve di Boniperti e Cervato per 2 a 1, con reti di Vitali e Vinicio. Quella volta, mi accompagnò il nonno di cui porto il nome e custodisco l’affetto: di calcio non sapeva nulla né gli interessava, ma accontentare il nipote preferito era uno degli scopi della sua vita.

 

Seguirono altre mie sortite allo stadio – poche, in verità – sempre con mio nonno Peppino, in curva, o con mio zio Egidio (che mi portava in tribuna), ma soprattutto sviluppai la mia passione attraverso la radio e i giornali (in particolare, l’inserto sportivo del lunedì, quelle pagine prima gialle, poi rosa del “Roma”; e forse proprio grazie allo sport, cominciai a leggere anche gli editoriali di Alberto Giovannini ed Enzo Erra (mentre di Antonio Scotti apprezzavo non solo i commenti sportivi, ma anche le sue rivisitazioni della storia borbonica).

 

La radio, dicevo. La voce, i modi dire, le invenzioni di Nicolò Carosio hanno lasciato il segno sui miei primi anni di tifoso, troppo spesso lontano dallo stadio, dalle sue bandiere, dai suoi cori, dai suoi boati di entusiasmo o di condanna, dalle fulminanti battute dei miei vicini di gradinata (altro che sediolini, altro che video-cabaret!). E ti dovevi immaginare tutto, da quella radiocronaca: i tiri in porta, i corner, i dribbling, la pioggia, il fango, il sole negli occhi degli atleti, il fischietto dell’arbitro, l’urlo del gol fatto o mancato…

 

Diego Armando Maradona

Era domenica (mica come oggi, cioè ieri, che si gioca – si giocava – tutti i giorni), non potevi sbagliare, si pranzava dai nonni – la nonna preparava il ragù… – e dopo ci si chiudeva nella stanza della radio, io e zio Egidio, a “sentire le partite”: “se la squadra del cuore ha vinto, brindate con Stock, se ha perso, consolatevi con Stock”… E ricordo quella volta – era di mercoledì, quando giocava la Nazionale – che facemmo, io e alcuni compagni, la marachella di portare una radiolina a scuola (turno pomeridiano: era l’epoca del boom demografico), per seguire la radiocronaca di Inghilterra-Italia, un 2 a 2 epico, con gol della coppia Brighenti-Mariani, attaccanti del Padova di Rocco…

 

Già, i calciatori. Perlopiù nomi nostrani e popolari, spesso legati alla città: i Postiglione, i Mistone, i Rivellino, i Comaschi, e poi Bugatti, Corelli, Bertucco, Di Giacomo, Beltrandi. Solo a Napoli, gli stranieri diventavano napoletani: era il caso di Juan Carlos Tacchi, di Pesaola, di Manuel Del Vecchio – che oriundi! – di Vinicio, soprattutto, e poi di Canè… Una squadra votata ad un’esaltante mediocrità, con fiammate di orgoglio – come quando vincemmo con la Juve sia a Napoli, per 4 a 3, sia a Torino, per 3 a 1 – ma anche di vergognose sconfitte, come un terribile 8 a 0 contro la Roma o un 7 a 0 contro l’Udinese…

 

Col trasferimento a Roma, cambiò il mio compagno di stadio: fu la volta del cugino un po’ più grande, romanista sfegatato, e testimone di non poche delle mie sconfitte da tifoso (ricordo un 3 a 0 subìto, con un palo dell’esordiente Canè, e una finale di Coppa delle Fiere vinta dalla Roma).

 

E poi venne la trionfale stagione di Diego, goduta – ormai con i miei figli maschi, Alessandro più appassionato, Massimiliano più moderato – ancora principalmente per radio o nelle sintesi di 90° minuto, magari nelle domeniche in campagna, nella casa di Anagni dei nonni materni, oppure in quelle trascorse “per sfizio” nella casetta di Trastevere, che non abbiamo più. Si passava dal bianco e nero al colore; cambiavano le pettinature, le fisionomie dei calciatori, naturalmente cambiavano  i nomi dei protagonisti – Careca e Bagni, Bertoni e De Napoli, Giordano e Romano, Crippa e Francini, Renica e Ferrara, oltre al Divino – e cresceva l’entusiasmo, finalmente corroborato dalle vittorie…

 

Ecco, il calcio è questo: una serie di pietre miliari delle memorie personali, familiari e pubbliche (e per me, ma non solo, c’era e c’è anche un pochino di rivalsa neo-borbonica, contro quei sabaudi della Juventus…), e non potrei rinunciarvi, neppure in presenza dell’attuale degrado, figlio del dio dollaro (o delle ingiustizie sistematiche…); no, non potrei rinunciarvi, anche se questa stagione è compromessa, anche se la televisione e i suoi più aggiornati apparati tecnologici non lasciano spazio all’immaginazione e ne riservano ancora un po’ alle recriminazioni e troppo al chiacchiericcio, anche se i napoletani in squadra – gli italiani in genere – sono ormai minoranza, con l’ingrato compito di assumere la veste di profeti in patria. E allora aspettiamo anche questo ritorno, con tutti gli inevitabili cambiamenti che non solo il calcio, ma tutta la vita, porterà con sé, a coronavirus sparito.

 

 

 

Giuseppe Del Ninno

Giuseppe Del Ninno su Barbadillo.it

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