Calcio (di G. Del Ninno). L’anima spagnola di Napoli, elogio di José Maria Callejon

Ci sono calciatori per i quali ti dispiace che il tempo passi e che sia così breve la stagione della loro vigoria atletica. E’ un po’ quello che accade per le attrici che, di volta in volta, incarnano il mito della bellezza, destinata a sfiorire. State pensando a Maradona e a Brigitte Bardot? Troppo facile e scontato. Io non penso alle grandi star: preferisco rifugiarmi in memorie meno glamour, del tipo Maureen O’ Hara o, per restare sui nostri lidi domestici, Alida Valli (chiedo scusa, ma di “miti” femminili dei nostri tempi cinematografici non me ne viene in mente nessuno; di belle ragazze sì, beninteso, ma qui si parla, appunto di “miti”).

 

E per i calciatori? Beh, in questi anni, da tifoso del Napoli, ma poi da appassionato di calcio in generale, non posso che pensare, in primo luogo, a José Maria Callejon. In altre epoche, lo si sarebbe definito un gregario, uno di quei calciatori bravi, ma un po’… grigi, di quelli che non meritano titoloni, interviste e – figuriamoci! – pettegolezzi sulle loro avventure e conquiste.

 

Eppure, Callejon non è un gregario, pur senza essere un leader. E’ semplicemente un professionista insostituibile, e infatti non è mai stato sostituito in nessuna campagna acquisti e cessioni, accumulando per di più il massimo del minutaggio con tutti gli allenatori che, in questi anni, si sono succeduti sulla panchina del Napoli. Perché? Perché è fra i pochissimi – per usare una metafora anatomica – che, in un fisico dall’apparenza gracile, ma ferrigno, mette insieme cervello, polmoni, cuore e fegato da campione.

 

José Maria mette insieme sobrietà e tenacia, resistenza alla fatica ed eleganza, visione tattica e guizzi di fantasia che, fra l’altro, sono di esempio anche per i compagni più giovani. Difensore coriaceo, centrocampista disciplinato e attaccante implacabile, e tutto in una sola partita: allenatore e compagni sanno di poter contare su di lui in ogni momento, a occhi chiusi. E poi, mai una lamentela, mai uno screzio da spogliatoio, mai un segnale di avidità, in un mondo purtroppo dominato da procuratori e affaristi del calcio, dove la grandezza di uno sportivo si misura dall’entità del suo ingaggio.

 

In questo piccolo mistero agonistico, c’è forse una spiegazione culturale e direi quasi antropologica: Callejon incarna, ai miei occhi, quella Napoli ispanica rappresentata ai massimi livelli da un sovrano come Carlo III e magistralmente descritta da uno studioso come Francisco Elias de Tejada, nel suo monumentale “Napoles Hispanico”. La Napoli che sa onorare il proprio lavoro, conosce lo spirito di sacrificio, coltiva lo spirito comunitario, apprezza la bellezza. Così mentre l’altro giocatore spagnolo del Napoli, Raul Albiol, ricorda nell’aspetto l’hidalgo decaduto, con la sua nobiltà di tratti e di movenze anche nel pieno delle mischie della vita (della partita…), Callejon si può avvicinare a certe figure di contorno del Don Chisciotte e, senza averne i tratti plebei, di Lazarillo de Tormes.

 

Insomma, la simbiosi fra questo calciatore andaluso e la capitale dei Borboni, sembrava scritta nel libro del destino: un passato prestigioso, un presente orgoglioso, ma purtroppo senza vittorie, una persistente, diffusa stima da tutti coloro che sanno apprezzare cose e persone di valore, indipendentemente dalle luci e dai coni d’ombra della ribalta.

 

In un’epoca di personaggi consegnati all’effimera fama dei rotocalchi (anche televisivi), di personaggi asserviti alla sola logica del profitto facile e, per questo, al ripetuto cambio di gabbana, pardon, di maglia, José Maria Callejon è un po’ il monumento all’inattualità, a quel piccolo, sano mondo antico destinato a restare soltanto nei nostri migliori ricordi.

 

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Giuseppe Del Ninno

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