“Ero soltanto un ragazzo della working class proveniente da un ghetto nazionalista, ma è la repressione che crea lo spirito rivoluzionario della libertà. Io non mi fermerò fino a quando non realizzerò la liberazione del mio paese, fino a che l’Irlanda non diventerà una, sovrana, indipendente, repubblica socialista”.
Il 5 maggio non è mai una data come le altre, non può esserlo. Lo si ricorda in quanto data di morte di Napoleone Bonaparte (1821), episodio cui Manzoni dedica una celebre ode. Allo stesso tempo, in questa data, ricorre un altro anniversario. Che, per eroismo, commozione ed orgoglio, non è meno importante degli altri due, anzi. Il 5 maggio 1981 infatti, dopo 66 giorni di sciopero della fame, muore il patriota irlandese Robert Sands.
Storia e letteratura sono piene di suicidi eroici: da Catone l’Uticense, a Jacopo Ortis, passando per Jan Palach. Con Sands però, l’amore cieco verso una causa e la scelta in questo senso di mortificare il corpo e la mente, arrivano ad essere così prolungati nel tempo, da assumere i contorni del vero e proprio martirio.
L’imperialismo inglese ha lacerato intere comunità, lasciando nel contempo unghissime scie di sangue, squilibri economici e conseguenti e terrificanti conflitti intraetnci. Al di là, per esempio, dei rapporti India-Pakistan, è curioso che quando ci si riempe la bocca della “duratura pace europea”, non si pensi all’incendiaria situazione dell’Irlanda del Nord.
In Irlanda, pur di controllare una parte dell’isola anche dopo la nascita dell’Eire, gli inglesi creano una entità a maggioranza protestante, in sei delle nove contee della regione dell’Ulster. Le conseguenti esasperate politiche di apartheid nei confronti della minoranza cattolica, oltre a rinvigorire l’Ira (Irish Republican Army), costringono i cittadini britannici di nazionalità irlandese a difendersi come possono, facendo forza anche sulla grandissima fede cattolica. Il terrorismo, le bombe, le guarnigioni britanniche falcidiate, sono solo sfaccettatura di questa forma di resistenza. Questa guerra, chiamata eufemisticamente “Troubles”, combattutasi tra il 1969 ed il 1998 essenzialmente in Nord Irlanda, tra indipendentisti (che sognavano il ritorno ad un’Irlanda Unita a 32 contee) e lealisti, cattolici e protestanti, ha fatto più di tremila morti. Inutile dire che la maggior parte siano stati civili cattolici.
Negli anni ’70, la situazione precipita: dopo la Bloody Sunday, la spirale di violenze cresce in maniera esponenziale: omicidi settari, soldati martoriati, bombe. Le strade di Belfast diventano un vero fronte di guerra. Le contestuali misure economiche adottate e la mancanza delle fondamenta dello stato di diritto (vedasi gli internamenti senza processo per i soli sospettati di terrorismo), non fanno altro che aumentare povertà e disperazione tra la popolazione delle borgate – ovviamente cattolici e nazionalisti – che, non trovando alcuna forma di sicurezza negli uomini dello Stato (anzi la polizia locale, la famigerata RUC, molto spesso chiudeva gli occhi , se non addirittura collaborava, di fronte alle violenze lealiste), non fanno che ingrossare le fila dei paramilitari dell’Ira. Ira che, dal canto suo, sembrava l’unica forza in grado di poter difendere i più deboli.
Tra i tanti arruolati, nel 1972, c’è anche un ragazzo. Il suo nome è Robert Sands e in quel fatidico 1972 ha 18 anni. Purtroppo per lui, è disoccupato. Di fronte alle reiterate minacce di gruppi lealisti, ha infatti dovuto lasciare l’apprendistato in una carrozzeria. La storia di “Bobby”, assomiglia a quella di tanti compagni della Brigata Belfast: tantissimi anni passati in carcere di fronte alle solite accuse, senza un regolare processo con un avvocato ad assisterli.
Nel 1976 poi, l’incessante tentativo di sfiancare la resistenza armata dei patrioti indipendentisti, porta i britannici a modificare la legge, equiparando così i terroristi o presunti tali, ai normali criminali; viene infatti cancellato loro lo status di prigioniero politico. L’occasione viene così sfruttata per organizzare una grande ondata di proteste tra i detenuti; non si dimentichino infatti le pessime condizioni detentive, di cui il carcere di Long Kesh “ Maze” ( tristemente noto anche come H-Blocks) è l’emblema. Le modalità scelte sono la volontaria non pulizia delle celle da urina ed escrementi e la scelta di vestirsi solo con coperte al posto della divisa carceraria.
Nel 1980, passati ormai quattro lunghi anni dalle prime ribellioni nelle celle, di fronte alla sempre crescente intransigenza delle autorità britanniche –intransigenza cresciuta con l’insediamento al 10 di Downing Street di Margaret Thatcher, avvenuto l’anno prima- si decide di recuperare un vecchio metodo di resistenza passiva, tanto caro alla lotta repubblicana: lo sciopero della fame. Il primo sciopero della fame però, fallisce miseramente. I prigionieri, infatti, mal organizzati, si lasciano ingannare dalle finte trattative proposte da Londra. Sands intanto, sta scontando i suoi quindici anni di pena. Egli infatti si trova a Long Kesh dal ’77, sebbene il possesso illegali di armi per il quale viene accusato, non sia mai stato del tutto provato. Bobby in carcere, oltreché affinare le sue doti di scrittore e poeta, è nominato OC: capo dei detenuti repubblicani .
Nel 1981, si riparte con lo sciopero. Questa volta però, l’organizzazione è curata molto meglio: si rinuncia ai pasti singolarmente (non più in gruppo come nell’80), così da dilatare il tempo delle trattative ed essere più difficilmente ingannabili. Il primo è proprio Sands. Quando, a poco a poco, appare chiaro che il Primo ministro britannico non avrebbe trattato con i prigionieri a nessuna delle loro condizioni e scenari apocalittici cominciano a delinearsi, la notizia si propaga con un’eco mediatico davvero incredibile. In tanti fanno sentire la loro voce, soprattutto nella Chiesa Cattolica. In particolare, restano storiche le affermazioni di Papa Wojtyla. Il Papa infatti, pur non riconoscendo la liceità della violenza repubblicana, lancia appelli alla ricerca di una mediazione, un compromesso. Purtroppo però, alle parole nessuna azione seguirà. Pur di non riconoscere l’Ira come legittima formazione politica, a Londra si decide di non trattare. Dopo 66 giorni di dolori, tra deliri, piaghe, ferite e la consapevolezza di una lotta disperata, si spegne il patriota, il rivoluzionario Bobby Sands. Lascia la moglie e un figlio piccolo che non ha potuto praticamente vedere. Con lui, nella bara, un Crocifisso dorato donatogli da Giovanni Paolo II in persona. Inutile sottolineare i venti di vibrante protesta propagatisi in tutta Europa e negli Stati Uniti a seguito dell’agire del Governo di Londra.
Sands tra l’altro, poco prima di morire, era riuscito anche a farsi eleggere nel proprio collegio, al Parlamento di Westminster. Fatto storico perché, per la prima volta, in nome degli “Hunger Strikers” anche il proverbiale astensionismo repubblicano, era venuto meno.
Lo sciopero, nonostante la morte del proprio condottiero, va avanti fino ad ottobre. Nell’ottobre ’81 infatti, dopo il decesso di altri nove martiri, gli ultimi scioperanti cessano la loro protesta: Londra aveva essenzialmente vinto il braccio di ferro.
Il sacrificio, sebbene di sangue da versare ce ne sarebbe stato ancora moltissimo, non sarebbe stato vano.
Nonostante le difficoltà che permangono ancora oggi, il processo di pace culminato nell’Accordo del Venerdì Santo del 1998 e che vide i politici repubblicani svolgere un ruolo centrale nelle trattative, deve moltissimo al martirio di quei detenuti. A Sands, va la dedica in quanto personaggio straordinario, nelle idee, nell’indole e nel carattere; un personaggio di cui purtroppo si parla sempre troppo poco. In un mondo però, dove i valori sono sempre più vacui, se non assenti, sono questi gli uomini che, nel bene e nel male, si dovrebbero prendere come esempio, anche nell’affrontare la vita di tutti i giorni. L’auspicio ultimo poi, da sognatori, è che presto l’Irlanda, liberata definitivamente dal giogo dell’oppressione britannica, torni a splendere nella sua unità e in tutta la sua forza.
“Tiocfaidh ár lá”, Bobby.