Au plaisir de Dieu (A Dio piacendo), di Jean d’Ormesson, è un piccolo, grazioso e divertente, capolavoro: è la storia di una famiglia dell’alta aristocrazia francese, dal XIX secolo alla stagione del terrorismo, che alterna, sapientemente, sacro e profano, dramma e pochade, danza e passo marziale. La prosa di D’Ormesson è varia (anche se sempre all’interno del registro del garbo signorile) e cristallina: la traduzione le rende giustizia, come raramente accade in questo genere di operazioni. Vi è del Malaparte e del Pitigrilli, ma anche del Thomas Mann in minore: i principi di Plessis-Lez-Vaudreuil sono dei Buddenbrook luminosi e solari, che vestono organza e tulle, piuttosto che pesanti grisaglie anseatiche. Eppure, la storia, che filtra dalle pagine del romanzo secondo una scelta tangenziale che sa di Verismo, è quella drammatica di due guerre mondiali: di morti, di vittime, di carnefici. Ciò nonostante, in una sorta di immutabilità genetica, in cui tutto pare cambiare tranne che il carattere di famiglia, il racconto rimane come sospeso in un’Arcadia campagnola ed elegante, tra tazze di tea e conversazioni all’ombra di piante secolari. Perfino quando sembra che tutto sia rovinato, con la vendita del castello e il definitivo ingresso della famiglia principesca nella modernità borghese, rimane viva nel lettore la sensazione che nulla sia finito: che i principi rimangano tali a tempo indeterminato, fino ad un loro ciclico e prevedibile ritorno alle antiche glorie, iniziate con le crociate. Il giovane rampollo ribelle, che compie attentati in nome della rivoluzione, firmerà i propri volantini di rivendicazione con “Au plaisir du peuple”, che altro non è se non un contorto e mimetizzato atto d’amore verso il proprio millenario blasone. Un libro di lieve lettura, che imporrà al lettore considerazioni tutt’altro che lievi.