Con sempre maggiore entusiasmo accogliamo la riscoperta dell’arte italiana del Novecento, specialmente quella afferente al cosiddetto Ventennio, che ha caratterizzato diverse mostre susseguitesi a Roma negli ultimi anni. Nella continuazione di questa doverosa valorizzazione di un periodo creativo che ha visto l’Italia primeggiare in campo internazionale, forse non per fama, ma sicuramente per la indiscussa qualità dei suoi artisti, si inquadra l’esposizione: Stanze d’artista. Capolavori del ’900 italiano, che rimarrà aperta presso la civica Galleria d’Arte Moderna (GAM) fino al 1° ottobre 2017, in cui l’arte della prima metà del XX secolo è raccontata da alcuni dei suoi maggiori esponenti: Massimo Campigli, Carlo Carrà, Giorgio De Chirico, Ferruccio Ferrazzi, Marino Marini, Arturo Martini, Fausto Pirandello, Ottone Rosai, Alberto Savinio, Scipione e Mario Sironi. A correlare le varie opere, si affiancano le parole dei loro autori, tratte da diari, lettere e scritti teorici o critici, così da offrire una opportunità per soffermarsi anche sulla intellettualità di questi artisti. In esposizione sono circa sessanta tra sculture e pitture, con particolare riferimento al decennio che va dal 1920 al 1930, in una mostra per palati finissimi, nella rivalutazione dell’obliato e, in parte, persino calunniato primato artistico italiano del ‘900. I pezzi vengono sia dalle collezioni della Galleria, che da raccolte private, un aspetto grave, questo, che affronteremo più in là nel nostro scritto.
I protagonisti
Cominciamo col parlare di Massimo Campigli (pseudonimo di Max Ihlenfeldt, 1895 – 1971), di origine ebraica e amante di Roma, città che lo plasmò nel cuore e nella testa, per via di quella impareggiabile classicità che egli mutuerà nelle sue opere, affascinato specialmente dalle figure femminili stilizzate viste nelle sculture del Museo Nazionale Etrusco di Villa Giulia: la maggiore raccolta etrusca del pianeta, ospitata nella stupenda residenza voluta a metà del ‘500 da Papa Giulio III Ciocchi del Monte, su progetto del Vignola. In Campigli si manifestano la purezza e il rigore compositivo di quelle antiche forme, che egli attualizza all’epoca moderna. Come detto, sono le donne le vere protagoniste dei suoi soggetti, archetipiche e senza tempo, inserite in spazi metafisici. L’artista trova la consacrazione alla II Quadriennale di Roma (1935), vincendo il terzo premio per la pittura esponendo tre lavori, tra i quali qui in mostra ve ne è forse quello più incisivo, la tela Le spose dei marinai (1934), facente parte delle collezioni della Galleria capitolina. Un quadro di grande effetto e originalità, che dimostra quanto Campigli lavorasse sulla armonizzazione tra figure di origine classica e una ricerca della spazialità altamente sperimentale: quelle sue donne dalle forme poligonali fungono quasi da contrasto con la bidimensionalità dei fondali.
Sicuramente il meno conosciuto tra gli artisti di questa esposizione è Ferruccio Ferrazzi (1891 – 1978). Valente pittore e scultore, egli si dedica a grandi cicli religiosi, intrisi di drammaticità, come quello per il Collegio Urbano di Propaganda Fide (1946) e quello per il Santuario di Santa Rita a Cascia (1951). Agli inizi degli anni ’60, la sua produzione vira principalmente sulla scultura, che Ferrazzi coltiva nel suo ritiro sull’Argentario. Le sue opere evidenziano come in lui ricorrano due temi: gli specchi e la vegetazione, costruendo delle scene piene, potentemente “animate”. La donna che si riflette allo specchio, quasi mai in solitudine, propone intriganti spunti di riflessione sulla bellezza femminile, su cosa la donna stessa pensi di sé, quando non è l’oggetto del desiderio maschile, bensì un essere contemplativo: Frammento di composizione (1920 – 1921). Per quanto riguarda la carriera di Ferrazzi, non va dimenticata la sua nomina nel 1966 a Direttore della Scuola del Mosaico Vaticano, incarico che lo porterà a eseguire la decorazione musiva per la Chiesa di S. Antonio a Taranto (1968 – 1971).
Marino Marini (1901 – 1980) è stato, con Arturo Martini e Giacomo Manzù, il maggiore scultore italiano del ‘900 e tra i principali in Europa. Le sue creazioni si contraddistinguono sovente per una tematica ripetitiva: la mostra non poteva infatti non presentare esempi dei suoi cavalli, nella fattispecie uno in bronzo del ’39. Egli ha comunque indubbiamente “fatto scuola”, con il suo miglior discepolo che proveniva addirittura dal lontano Giappone; quel Kenjirō Azuma, la cui opera Croce (1968 – 1969) fa parte niente di meno che delle Collezioni di Arte Contemporanea dei Musei Vaticani.
Il nome di Marini ricorda almeno in parte quello di un altro scultore, anche se quando si parla di Arturo Martini (1889 – 1947), ci si trova davanti a tutt’altra pasta di artista. Il “Sironi della Scultura”, principale esponente, proprio insieme al pittore sardo, della scena artistica del fascismo e come lui apprezzato da Margherita Sarfatti. Di Sironi, Martini non ha fortunatamente condiviso l’ostracismo portato avanti dalla intellighenzia postbellica. Egli fu uno dei grandi animatori delle mitiche Quadriennali di Roma (1935, 1939 e 1943). Tra le opere in esposizione troviamo Il pastore (1930), scultura a grandezza naturale, audacemente concepita in terracotta e caratterizzata da un modellato morbido e da un rigore compositivo. Qui Martini ricorre al modello donatelliano, con una figura aggraziata e allungata, quasi più suggestiva se vista da dietro. Assai curiosa, a rimarcare un certo gusto per la satira di chi la politica l’ha vissuta, il suo Ritratto del Prof. Schwarz (1931), nel quale Martini taquine, per dirla con i francesi, il famoso collezionista, mecenate e studioso di arte contemporanea, mostrando con affetto il suo essere stato per alcuni versi lo stereotipo dell’intellettuale ebreo. Per meglio documentarsi su questo fondamentale artista, segnaliamo un testo uscito di recente, a opera di una delle più attente studiose degli “artisti fascisti”: Arturo Martini (Monza, Johan & Levi, 2017) di Elena Pontiggia.
Essendo Scipione (nome d’arte di Gino Bonichi, 1904 – 1933) uno dei pittori di punta nelle raccolte della GAM, eccellente interprete di quella Scuola Romana che tanto contribuì al rinnovamento dell’arte prima e dopo la Seconda Guerra Mondiale, si è giustamente pensato di offrire nuovamente al pubblico la visione di un quadro, ci riferiamo al magnifico Il Cardinal Decano (1930), che non solo si attesta tra i più potenti dipinti europei dell’epoca, ma altresì una quintessenziale rappresentazione dell’anima convulsa e perennemente contrastata della Città Eterna. In esso, si ritrova un flusso di sensazioni, ove si alternano il “sacro” col “profano”; il “sogno” con l’“incubo”. Colta fu la Scuola Romana, all’estero stoltamente ignorata e in Italia incomprensibilmente sottovalutata dalla critica di settore, e difatti pure nella suddetta opera di Scipione i riferimenti alti non mancano certo, dal Ritratto di Paolo III (1543) di Tiziano a quello di Innocenzo X (1650) di Diego Velázquez – quest’ultimo unanimemente considerato il capolavoro del pittore spagnolo e uno dei principali tesori della Galleria Doria Pamphilj – trasposti però in una visione spettrale. Di suo vi è inoltre l’intenso: La via che porta a San Pietro (I Borghi) (1930), dove Roma viene puntualmente rappresentata in modo fantasmatico, quasi fosse una “città simulacro”.
Non poteva poi mancare all’appello Mario Sironi (1885 – 1961), qui protagonista con varie opere, tra le quali una autentica rarità – a dire il vero, tutto Sironi lo è, in virtù della damnatio memoriae che lo ha reso scarsamente presente nei nostri musei – ci riferiamo alla Pandora (1924), che si può ammirare dopo decenni, con i suoi potenti rimandi a Masaccio (La distribuzione dei beni e la morte di Anania, 1426 – 1427). Pandora è la capostipite delle monumentali figure femminili dell’artista, tra le quali spicca L’allieva, anche essa del ’24. Imponenti e “monumentali”, benché sempre femminili le donne in Sironi, aspetto che sicuramente lo fece entrare nelle grazie del Regime, ma che non dovrebbe in alcun modo spingere a intravedere in queste raffigurazioni del pittore qualsivoglia intento di piaggeria, giacché Sironi era maestoso e solenne di suo. Esposto è pure un altro dei pezzi forti della GAM e sempre di Sironi: La famiglia (1927). Presentata alla Quadriennale del 1931, questa opera conferma quella che noi amiamo chiamare la: “religiosa laicità” in questo pittore, quando addirittura il Sacro si riveste di una potenza fisica, la quale non abbandona però mai quel “manto malinconico” che è la cifra, per dirla con i critici di oggi, sironiana, che si ritrova con ancora maggiore drammaticità nelle sue rappresentazioni della città: Paesaggio urbano con gasometro (1944).
Infine, ci sono altri due nomi in Stanze d’artista su cui è utile spendere qualche cenno. Il primo è Fausto Pirandello (1899 – 1975), figlio del celeberrimo drammaturgo siciliano. In mostra due tra le sue opere più belle (Composizione, 1923 e Il sarto, 1929) e, nel contempo, icastiche di quel suo stile a metà tra il grottesco e il surrealista, nel suo essere decisamente poco “composto”, caratteristica che non fece apprezzare la sua arte a quel padre così ingombrante, nonché pittore dilettante, incline a dipingere paesaggi banali dal gusto rustico. Il secondo è Ottone Rosai (1895 – 1957), un artista perlopiù scarsamente considerato. Probabilmente, di migliori di lui nel ‘900 l’Italia ne ha avuti tanti, a partire da quelli presenti in questa esposizione. Purtuttavia, nasce una fortissima suggestione quando si accostano tele di Rosai come: Paese (1923), alle “visioni” urbane di Sironi. In entrambi sembra mancare quasi tutto, dalle finestre alle persone. Il contrasto che colpisce in tale confronto sta nelle emozioni che comunicano i loro lavori. Da una parte, il sardo, con il suo imperituro scetticismo umano; dall’altra, il toscano con un pessimismo che non rattrista, bensì lascia paradossalmente trapelare sensazioni di quiete. Quindi, se per Sironi il dramma dell’individuo è incarnato dalla città, dunque dal progresso, in Rosai è il paesaggio contadino il palcoscenico di una solitudine in qualche modo vitale.
Il perdurare di un preconcetto
Non ci dimentichiamo mai, quando lo reputiamo necessario, di porre alla attenzione del lettore una utile riflessione museologica. Per quanto concerne la mostra romana, ciò è legato al fatto che molte, anzi troppe, delle opere provengano da varie collezioni svizzere. Un dato che, per chi sa leggere tra le righe, conferma quello che andiamo sostenendo da tempo. Ovvero, che questi artisti vicini al tanto vituperato Regime Mussoliniano hanno pagato un prezzo ingiusto per essersi, chi più e chi meno, trovati vicini al fascismo o semplicemente attivi in quel periodo senza però schierarsi chiaramente contro di esso. Invece di venire considerati dai nostri critici e studiosi quali esponenti di assoluto rilievo dell’arte europea del XX secolo – per Sironi poi è a nostro avviso corretto parlare del principale pittore del ‘900 – li si è giudicati “compromessi”, scomode figure non degne di essere valorizzate e, va da sé, adeguatamente collezionate. A riprova di questo, un “signor giornalista”, probabilmente di qualche testata sinistra, al momento della anteprima stampa, stava cominciando a incalzare una delle curatrici (Federica Pirani), sul fatto che non bisognerebbe dare spazio a questi “fascisti”, segnatamente a Martini e Sironi. Confessiamo che in quella occasione non siamo stati molto “accademici”, e abbiamo chiuso la bocca all’ovviamente barbuto opinionista in malo modo. Il motivo? Perché non se ne può più di cotale dabbenaggine. Forse costui dovrebbe soffermarsi sulla sostanza delle cose: se i collezionisti elvetici, che non sono proprio degli sprovveduti, hanno comprato in massa questi artisti forse un motivo c’è!
@barbadilloit