Da quando i Borboni fecero ritorno in Francia senza restituire agli emigrati e alla Chiesa i beni che la Rivoluzione aveva espropriato e venduto all’incanto, la Francia è una nazione di destra. Le rivoluzioni, dalle “Tre Gloriose” al “Joli Mai”, potevano scoppiare nella capitale, ma poi nelle elezioni vinceva la Francia profonda della provincia, con il suo ceto di contadini arricchitisi comprando a prezzi di saldo i beni nazionali all’epoca della Rivoluzione. Georges Bernanos nel suo La grande paura dei benpensanti spiegò bene questi meccanismi, che si sono sostanzialmente riprodotti fino agli anni Ottanta, sia pure con le trasformazioni legate al passaggio da una società agricola a un’economia industriale e poi terziaria. Culto dell’Armée, nazionalismo, selezione meritocratica della classe dirigente tramite le Grandes Ecoles, ricchezza diffusa hanno garantito, a parte l’effimera esperienza del Fronte popolare e i sussulti del secondo dopoguerra, un solido radicamento alla destra francese.
Gli anni ottanta
A sabotare l’ingranaggio sono intervenuti negli anni Ottanta una dichiarazione maldestra e un calcolo machiavellico. La gaffe la fece Raymond Barre, primo ministro del presidente Giscard d’Estaing, che il 3 ottobre 1980, all’indomani del sanguinoso attentato alla sinagoga di Rue Copernic se ne uscì con un’infelice dichiarazione: «Quest’attentato odioso voleva colpire gli israeliti che si recavano alla sinagoga e ha colpito dei francesi innocenti.» Pochi mesi dopo ci furono le elezioni presidenziali, vinte da François Mitterrand per un’incollatura dovuta anche a quell’uscita che spostò a sinistra le simpatie dell’élite ebraica.
Mitterrand, eterno sconfitto nei duelli con De Gaulle e i candidati gollisti, era all’epoca un politico poco conosciuto anche dai giornalisti italiani, che spesso storpiavano il suo cognome, scrivendolo con una erre sola. In compenso conosceva l’Italia, dove aveva fatto un soggiorno di studi sulle rive dell’Arno, e in particolare conosceva Machiavelli, da cui il soprannome di “Florentin”, pare appioppatogli da François Mauriac. E forse fu Machiavelli a suggerirgli dall’Inferno il trucco con il quale, arrivato al governo grazie a una fragile coalizione di fronte popolare, riuscì a rimanere presidente della Repubblica per quattordici anni, proprio mentre, nell’era Thatcher e Reagan, il resto dell’Occidente andava a destra.
Il ruolo strumentale di Jean-Marie Le Pen
Il machiavello di Mitterrand si chiamava Jean-Marie Le Pen. Era il fondatore e padre padrone di un piccolo partito che non senza difficoltà e contrasti aveva raccolto intorno a sé la complessa galassia dell’estrema destra transalpina, comprendente legittimisti e orleanisti, bonapartisti e boulangisti, pétainisti e nostalgici dell’Algérie française, cattolici lefebvriani e neopagani della Nouvelle Droite. Per farlo aveva fagocitato nel suo Front National quadri e iscritti del piccolo ma combattivo e culturalmente qualificato Parti de forces nouvelles.
Le tesi del Pfn erano più radicali – molti iscritti provenivano dal disciolto Ordre Nouveau o dal gruppo di Défence de l’Occident, – ma con minori concessioni al folclore nostalgico, ma il partito poteva vantare un organo di stampa più che dignitoso come “Initiative Nationale” intorno a esso ruotavano scrittori come Dominique Venner e musicisti e disegnatori come Jack Marchall. In realtà, al momento del voto, l’estrema destra francese poteva contare su un serbatoio di voti enormemente inferiore alle sue potenzialità perché il sistema elettorale maggioritario escludeva i piccoli partiti. I risultati erano due: i vari raggruppamenti finivano per trattare l’appoggio ai notabili gollisti in cambio di spazi di agibilità politica e culturale; inoltre in mancanza di un forte partito neofascista non vi era spazio, al di fuori di qualche ambiente studentesco, per il neoantifascismo. Se Alain de Benoist poteva collaborare al prestigioso “Figaro littéraire”, e la Nouvelle Droite aveva legami col giscardiano Club de l’Horloge e disponeva di una prolifica casa editrice come Copernic, i cattolici integralisti che occuparono nel 1977 la chiesa parigina di Saint-Nicolas du Chardonnet beneficiarono del tacito sostegno dell’allora sindaco di Parigi Chirac. Al tempo stesso anche l’appoggio, reale anche se non dichiarato, della destra radicale aveva assicurato fino al 1981 solide maggioranze golliste.
Mitterrand comprese che, per rimanere alla presidenza della Repubblica, specie dopo la rottura col partito comunista francese, aveva bisogno di incrinare il fronte avversario, conferendo visibilità politica al Front National. Questo, in forza del sistema elettorale vigente, era stato un movimento marginale anche se sorretto da un discreto consenso per l’aggravarsi dell’emergenza migratoria. Per realizzare il suo disegno “le Florentin” esercitò – procedimento equo ma non disinteressato – pesanti pressioni sulle catene televisive perché invitassero ai dibattiti politici esponenti del Fn e soprattutto varò una riforma elettorale in senso proporzionale, che alle elezioni legislative del 1986 consentì al partito di Le Pen di ottenere 35 deputati. L’alleanza fra Rpr e Udf vinse lo stesso le elezioni, ma con una maggioranza risicata, il che assicurò a Mitterrand una posizione di forza nella “coabitazione” col centro destra. Da allora, anche dopo il ripristino del maggioritario voluto dai neogollisti, il Front National divenne un elemento divisivo dello schieramento moderato, che unito avrebbe potuto facilmente conquistare la maggioranza dei voti alle presidenziali e all’Assemblea Nazionale. Anche per l’umoralità del suo padre-padrone, per il suo spregioso istinto gaffeur, per la sua istrionica tendenza a fare la caricatura di se stesso, il Fn restò fuori dei giochi, come e più del Msi della Prima Repubblica, divenendo un involontario alleato della Gauche. Rimase rinchiuso nel “ghetto” fascista, nonostante che il suo fondatore da ragazzino avesse cercato di entrare nella Resistenza, a differenza di Mitterrand, che da giovane aveva collaborato con Vichy.
Le Pen? L’eroe spregiosamente anticonformista de “I pesci rossi”
In realtà, più che lo spessore morale del protagonista di un romanzo di Pierre Drieu La Rochelle, c’è in realtà in Le Pen qualcosa dell’eroe spregiosamente anticonformista della commedia di Jean Anouilh I pesci rossi. Solo che lui, invece che orinare nella vasca dei poissons rouges, si compiaceva di farlo sul “politicamente corretto”, a costo di ricorrere a giochi di parole di dubbio gusto, a uso e consumo di una Francia profonda legata al culto dell’aperitivo delle 11, del quart de rouge abbinato al plat du jour nei bistrots, del Pastis del dopopranzo, nonché agli applausi che scattano in automatico quando un oratore accenna all’Algérie française, un po’ come, nei vecchi comizi del Msi, esplodevano quando veniva nominato, magari a sproposito, Mussolini. Nonostante questo, e anche per l’esplosione della questione migratoria, il Front National esercitò un discreto e a volte imprevedibile richiamo sugli intellettuali, persino di sinistra, come il vecchio regista pacifista Claude Autant-Lara, che nel 1989 entrò nelle sue liste all’Europarlamento (e toccò a lui, come deputato più anziano, presiedere la seduta inaugurale, tenendo un discorso identitario e antiamericano che fece scandalo). Ma, proprio mentre in Italia il Msi entrava al governo, il Front National rimaneva un polo (auto)escluso.
La svolta di Marine Le Pen
Marine Le Pen ha cercato di combattere questa esclusione, anche a prezzo di un doloroso “parricidio” politico, e, a giudicare dai risultati finora raggiunti, ci sta riuscendo, anzi ci è in buona parte riuscita. Non ha le capacità istrioniche del padre, e in parte è un bene, anche se talvolta riaffiorano nelle interviste e nei dibattiti più accesi talune sue caratterialità: il sangue non è acqua. Ma è esente da quella mistica della sconfitta, da quel gusto solitario e un po’ onanistico della testimonianza fine a se stessa che tanto male ha fatto alla destra, di qua e di là delle Alpi. C’è da precisare che la congiuntura politica nazionale e internazionale le ha dato una mano. La Francia, che negli anni ’70, autostrade a parte, era nettamente più avanzata rispetto all’Italia, è oggi una nazione in piena decadenza, con una classe politica da vaudeville, un’egemonia culturale e linguistica venuta meno, una scuola pubblica decaduta, flics un tempo onnipotenti costretti anche in quartieri centrali di Parigi a fare la ronda in quattro, con radiotelefono, manganello, mitraglietta perché anche in coppia non sarebbero sicuri. L’era Mitterrand ha avuto momenti di grandeur quasi monarchica, ma molte scelte politiche del “Florentin” hanno contribuito a far perdere alla Francia la sua grandezza. I contraccolpi della crisi economica, la mediocrità della classe politica sia socialista sia post-gollista, l’emergenza terrorismo che enfatizza problematiche da tempo cavallo di battaglia del Fn hanno offerto a Marine Le Pen notevoli opportunità, di cui suo padre non aveva potuto beneficiare. A volte ha lasciato l’impressione di essere arrivata al momento del voto un po’ logorata da una campagna elettorale informale protrattasi per troppi mesi, bruciata da sondaggi che l’indicavano già un anno fa come il nemico da battere, perseguitata dall’accanimento nei suoi confronti della stampa, anche moderata. Ma soprattutto ha risentito della resistibile ascesa di un personaggio come Macron. Il futuro probabile presidente della Repubblica francese sarà anche, come ha detto Franco Cardini, “il figlio di una dea minore, che ha anche sposato”; sarà anche uscito da un algoritmo, come sostiene Alain de Benoist. Ma si tratta di un algoritmo vincente, che ha consentito a questo “nerd” di successo d’intercettare i consensi di una borghesia possidente preoccupata per la tenuta dell’economia, e insieme di molti giovani secchioni che sperano di arricchirsi anche loro lavorando alla banca Rothschild, come tanti piccoli imprenditori votavano negli anni ’90 Berlusconi perché speravano di fare fortuna come lui.
Se il fronte patriottico supera o lambisce il 40%
Se, pur non riuscendo a vincere, riuscirà stanotte a lambire il 40 per cento dei suffragi, Marine Le Pen avrà ottenuto un grande successo. A una condizione: che non consideri il risultato un punto d’arrivo ma di partenza, anche in vista delle prossime elezioni legislative. La delegittimazione dei due storici partiti della quinta repubblica al primo turno delle presidenziali le apre scenari analoghi a quelli che dischiuse alla destra la crisi dei partiti politici italiani. Ventiquattro anni fa la nascente Alleanza Nazionale seppe fare degli insuccessi di misura nei ballottaggi di Roma e di Napoli la premessa per alleanze politiche destinate a farla entrare nell’area di governo. Con quali contenuti e quali risultati, poi, sarebbe tutto da discutere. Ma questa, come direbbe Kipling, è un’altra storia.