Se tanti anni di rivendicazioni femministe e omologazione del pensiero abbiano realmente migliorato la sorte della donna è facile dire, basti immaginare o osservare i libri di storia, le leggi parlamentari, la presenza sociale. La donna moderna è considerata come involucro, mai come essenza. Essere “femmina” è impresa titanica.
L’avanzamento sociale ha previsto un rovesciamento di ruoli, sfociato in confusione generazionale degli oneri e degli onori, ripagata con l’apparente libertà della minigonna, dei contraccettivi, della tutela legislativa alla violenza, di una eguaglianza inesistente nella sostanza ma apparentemente importante nella forma. E se le quote rosa equiparano la presenza politica femminile con quella maschile, non di certo nell’agire quanto solo nel presenziare, la disintegrazione della famiglia destituisce di fatto la donna dal suo ruolo primario, facendone uno strumento nelle mani del maschio, che per rivendicarne la proprietà esercita su di essa sempre maggior violenza.
L’inizio della civiltà, quei mondi di popoli ordinati, identitari e felici, da alcuni sociologi definiti primitivi, avevano della donna un rispetto oggi sconosciuto, perché ne conoscevano i tempi naturali, ne sostenevano il ruolo societario, ne temevano e ammiravano la potenza sessuale e procreatrice. E invece dapprima mediante l’offesa religiosa in seguito a causa della condanna filosofico-politica di matrice marxista, la donna ha smarrito nel percorso “progressista” la sua potenza, che la stessa società non è più in grado di riconoscerle. Tanto è vero questo postulato che in epoca post moderna dirsi donna e perseguire la carriera o dirsi madre entrano in contraddizione, attraverso il ricatto di accettazione dell’androginizzazione o della morte realizzativa. Demenzialità moderne, a cui però qualcuno continua a credere, colpevolmente.
Esiste ancora il licenziamento per colpevolizzare la maternità. E’ sempre più forte l’insofferenza dello stato a concedere agevolazioni e diritti alle madri, ed è pur vero che è sempre più raro assistere alla lotta delle donne per difendere la loro natura a dare la vita. Adducono a loro stesse il pretesto alla libertà e dimenticano le istanze dell’unica civiltà da cui dobbiamo pensare di derivare, quella che pensava la libertà come l’essere ciò che si è, come libertà di esercitare un ruolo preciso e da tutti riconosciuto e rispettato nel sociale. In tempi di barbarie democratico liberale, l’insofferenza dei codici civili e penali, strabordanti di articoli e comma non costituisce una garanzia per la figura femminile e ne ha anzi decretato la lenta agonia, annunciata dai “demoni del bene”.
Ecco perché credo fermamente che per risolvere il problema della donna bisogna cominciare ad essere donne non a parlarne invano. A pretendere non parità ma rispetto per la diversità. A difendere la maternità come sintesi meravigliosa di ciò che è la vita e a condannare e denunciare gli abusi compiuti dall’indifferenza capitalista, che prevede il produrre, produrre, produrre, deridendo lo scorrere naturale del tempo biologico per ognuno di noi. Ecco anche perché è tempo di rigettare le uguaglianze forzose tra i sessi e pretendere la solidarietà tra le differenze, non soltanto per non contravvenire a prescrizioni religiose, ma per sostenere fermamente un impegno sancito con la natura alla nascita e forse ancor prima.