C’è stato un periodo in cui molte cose sembravano possibili. Bella scoperta! Era la gioventù. E la percezione stessa della realtà era più sfumata, meno dura, meno manichea. I confini tra mondo razionale e irrazionale più labili, o piuttosto meglio percepiti, forse perché le porte (della conoscenza) erano ancora parzialmente aperte.
Ci piacevano i Doors, ci piacevano tante esperienze di confine. Ci piaceva andare oltre, non ci piaceva il mondo moderno. Per tanti anni poi abbiamo richiuso in cantina (o nell’inconscio) il materiale accumulato, le letture, gli incontri con uomini e donne straordinari. O almeno che pensavamo essere tali.
Se le porte della percezione fossero completamente aperte, il mondo ci apparirebbe per ciò che realmente è: infinito. Jim Morrison pensava a William Blake, il visionario, scegliendo il nome del suo gruppo, i Doors. E noi, giovani menti curiose e impreparate, vagavamo senza guida alla ricerca di una percezione almeno più soddisfacente.
“Ma era roba di provincia, tagliatelle fatte al sugo. Ed era comodo sbagliare, senza impegno riprovare”. Avevamo lo spirito dell’esploratore, ma non la perseveranza e l’orientamento. Un approccio di grande sensibilità e curiosità, senza metodo. Ammesso che un metodo ci sia. Di fiore in fiore, dicevamo, speravamo, per distillare qualcosa. Spesso perdendoci nella macchia e tra gli spini, ma senza mai sentire puzza di fogna. Semmai il profumo del bosco.
Da Ermete Trismegisto e dall’alchimia profonda intuita grazie a Julius Evola che ci mostrò quale oro realmente cercare, al Golem di Praga, agli angeli della finestra d’occidente.
Dalle diavolerie di Aleister Crowley, alle aure sincretiste di Zolla, fino alle emozioni cristiane del respiro interiore nella preghiera del cuore, alla meditazione dell’esicasmo e ai castelli interiori di Santa Teresa d’Avila, oppure fino alle lucide visioni di Ildegarda di Bingen e alla mistica di Meister Eckart.
Ce n’era tanta di roba in quella ricerca sconsiderata, tanta da entrare in una canzonetta di Franco Battiato. Che ci apparve quasi sodale in questa avventura, leggendo i testi della sua piccola casa editrice, L’Ottava, e scoprendo il di lui Maestro, tale Giorgio Gurdjeff, l’armeno. Salvo poi, come in un gioco del domino, far combaciare questa tessera con quella di un altro visionario, René Daumal, che ci accompagnò sui sentieri verso la montagna. Che non era fatta solo di sassi e sudore.
Poi incontrammo il professor Tolkien, la sua Terra di Mezzo (l’unica che abbiamo frequentato) e le sue mitologie che incrociavano cristianesimo e paganesimo. Come le nostre chiese, le nostre semplici chiesette romaniche di montagna in Appennino, che stanno sopra i templi pagani degli antichi italici, dalle quali era meraviglioso osservare come il Sole Nuovo segni un tempo diverso da quello degli orologi.
Albe, tramonti, musica e incontri sulle strade d’Europa. Una visitina alla fontana dell’eterna giovinezza a Brocéliande con Merlino, il vento tra i capelli (quando ancora c’erano) sulla rocca di Montsegur, la sensazione di toccare non la pietra, ma qualcosa di vivo, “le ossa di un dio”, appoggiandoti alle colonne del tempio di Delfi.
“Stanchi, sporchi ma felici”, riportando tutto a casa, nello zaino e nella testa. Imparando l’arte di camminare con la testa. Oppure quella di svuotarsi mentre si sale e di riempirsi di vuoto, come ripeteva un amico alpinista che scalava non soltanto le montagne.
Sempre con leggerezza: con lievi mani, con lieve cuore la vita prendere, la vita lasciare. Ci dicevamo, nonostante tutto. E si rideva sotto sotto, di presunti maghi, fratellanze cosmiche, di sciamani nostrani, delle linee d’energia e del cielo dei Celti, della triade eugubina e delle triadi di Guénon. Si rideva perché il demone interiore va preso talmente sul serio che occorre riderne. E il re del mondo “che ci tiene prigioniero il cuore” ci osservava, ridendo anche lui.
Tanto da farci quasi dimenticare di noi e rinserrare tutto questo in un angolo dell’anima, per troppi anni. Salvo aprire qualche finestrella ogni tanto, con la tentazione dell’anello del potere, o almeno di quello dell’effimero controllo della realtà, a distrarci e a farci smarrire la via.
Adesso che intorno tutto sembra cadere e che la realtà che abbiamo tanto cercato di dominare si svela per la più bambinesca delle fantasie, forse l’opera al nero volge al termine.
Il problema vero, adesso, è trovare un filo rosso che colleghi la gioventù alla vecchiaia. Il problema è riconoscere la traccia del sentiero del giovane esploratore e continuare a guardarsi intorno, camminando più piano, ma cercando più in profondità, magari qualcosa che ci eravamo persi mentre correvamo. Chissà, forse finalmente – con una nuova attenzione – raccoglieremo da terra un Peradam, di quelli che si trovano solo nelle contrade sotto il monte Analogo, sempre con la consapevolezza che la ricerca è un andare ed è propria del viandante che va per la via con animo quieto, incontra, ascolta, filtra e narra. A se stesso e agli altri. E lascia una piccola traccia a chi passerà di lì dopo…