E’ in punta di piedi che ho messo il punto al mio nuovo libro. Giusto l’ultimo giorno di Ramadan ho chiuso la pagina, finisco dunque, confido nel responso dell’editore – aspetto – e mi ritaglio il riposo, una settimana dopo, con una gita a Noto. E’ un mio pellegrinaggio di devozione a Ibn Hamdis che proprio qui, nella città del Duomo, ebbe i natali. Magari lui, ai tempi, avrà avuto un podere di mandorle con chissà quanti fiori di gelsomino. Avrà di certo succhiato quei boccioli per poi baciare la donna sua velata di bianco, quella i cui calzari erano sandali sciclitani.
Chissà che canti, lui, Ibn Hamdis, così possente nella nostalgia e dunque m’incammino rosicchiando con voluttà non le labbra della donna di Hamdis, bensì una brioche forte di cuzzagno, inzuppata di gelato di limone. E’ buonissima e – in punta di piedi, dopo il gelato – mi metto nella sequela di Titta Rosso e con lui vado in libreria che non è propriamente una libreria, bensì qualcosa di più, un negozio fichissimo dove entrare in punta di piedi perché in qualche modo è bar, o ristorante, e poi anche boutique e perfino cianfrusaglieria dove trovare il re di spade, la carta più marziale del mazzo, riprodotta in terracotta. Costa quaranta euro, sarebbe da comprare ma le carte da gioco le ha pur fabbricate il diavolo e tutti quegli euro sono proprio troppi per un souvenir, meglio prendere un libro perché i pomeriggi di Sicilia, con quel caldo, sono lunghissimi e solo la lettura può aiutare quando, sotto la vampa del sole, come nelle giornate di pioggia improvvisa, solo dentro casa si può stare. E aspettare.
E che libreria, quella. E’ ricavata in una cripta e la specialità tutta particolare di quel posto – mi spiega Titta – è nell’essere stato il luogo, un tempo sacro, rispolverato e poi destinato alla ficaggine di una sosta turistica com’è proprio dei tempi nuovi che sono trendy, apericenici, friendly, glamour insomma.
La vetrina, infatti, è destrutturata come fosse una giacca di Armani. La citazione, me ne rendo conto adesso, è vecchia almeno di tre decenni, evoca la Milano da bere ma voglio dire che è informale il contesto. E’ tutto uno sminuzzare gli spazi, con le cannucce infilate tra i volumi più gettonati, il bancone con le riviste più cool porge anche qualche sacca (per portare libri, va da sé) e la sacca è gravida di citazioni ideologicamente corrette.
Ed è tutto un mettere le mani avanti sul concetto assai avanzato di un mondo libero, emancipato, avanzato, evoluto e fichissimo per dirla, una volta per tutte, con la definizione guida. E siccome sono uno di paese entro in punta di piedi dimentico perfino della conseguenza numero uno della de-sacralizzazione e cioè che i demoni abitano sempre i santuari dimenticati. E tutto, appunto, lì è votato al bene.
Bella per come è bella quella libreria racconta nella sua singolarità l’editoria italiana per come è diventata. Svela, quel negozio, tutto il commercio dell’industria culturale, il tempo che fa, lo Zeitgeist, la vanità ideologica del sentimento diffuso, il prontuario delle idee dato a disposizione dei cretini cognitivi e io che quattro fili di pasta alfabetizzata me li mangio pure mi sento profondamente a disagio perché A) non trovo un solo titolo da comprare e portare a casa B) sono pur sempre un ex libraio e mi sento smarrire lì dentro, mi sento come un farmacista in una parafarmacia C) ho appena consegnato a Elisabetta Sgarbi il mio nuovo libro e perciò mi viene il freddo all’idea di trovare un posto in mezzo a tutte quelle meravigliose cacate di sicuro successo e poi D) anche Francesco Merlo sta per consegnare a Rizzoli il suo primo romanzo, siamo pur sempre una coppia, quasi lo chiamo e gli dico “Scappiamo” ma ormai è fatta, l’ovvietà è in copertina e siccome l’unico demone in quel santuario dimenticato sono io, mi permetto di fare uno scatto all’espositore dei libri perché non ci si può credere quanto ormai sia sfacciato un fatto, e cioè, c’è più spirito critico in una curva di ultras che in una libreria, proprio a proposito di copertina mi sento salire l’uzzolo di un’idea E) fabbricare una parodia del monumento dei monumenti: invece che Gomorra fare Sodoma e al posto dei coltelli policromi della bellissima cover di Roberto Saviano mettere altrettanti dildo, o vibratori che dir si voglia, tutti policromi e magari dentro le pagine scrivere semplicemente piripì-piripì e piripò-piripò, giusto a significare (nella migliore delle intenzioni) la disobbedienza al dogma dominante, mentre nella più becera delle realtà, invece, fare qualche soldo al modo di risulta dei parassiti perché chi di Goffredo Fofi ferisce, di Goffredo Fofi perisce. Fu lui e non fu lui, il sommo critico, a stabilire che la parodia di qualcosa che non è un capolavoro diventa ipso facto capolavoro? Come fu per l’appunto per “Ultimo Tango a Zagarolo” di Franco Franchi, di gran lunga superiore a “Ultimo Tango a Parigi” di Bernardo Bertolucci. Superiore al punto che quest’ultimo, in assoluta sincerità, confidò di non aver mai visto la pellicola di Franchi nel timore di dover riconoscerne la superiorità rispetto al suo, pur molto burroso.
Piace come piace Calimero, Saviano, è tutto un “poverino”, è “piccolo” ed è pure “nero” ma in punta di piedi, io, con gli zoccoli da capro che mi ritrovo, non posso neppure riconoscermi nel volume di Friedrich Nietzsche, “L’Anticristo”. E’ edito da Newton Compton, costa meno di due euro, è incastrato in un apposito contenitore e porta stampato in copertina il Baphomet pop già visto nel “Dracula” di Francis Ford Coppola. L’ovvio in copertina comporta un automatismo e però si esagera in coprolalia se tutta questa mistificazione – “Qui si abusa!”, per dirla con Totò – sconfina nella concorrenza sleale e non tanto per il prezzo quanto per il degrado. I classici, quelli che come i galenici stavano eterni negli scaffali delle farmacie, nelle librerie ci sono solo nella versione cheap, tutto il contrario dell’élite di massa, e sono piuttosto come la Santa Messa a cui hanno tolto il rito, il sacro e il latino per sbrigarsela con una schitarrata.
Finisce proprio male se poi con quella copia di “Anticristo” qualcuno prova a farci una messa nera e non sto qui a spiegare quanto potrebbero guadagnarci in sabba, i devoti satanisti, coi volumetti edificanti del priore di Bose, con l’astrofisica di Margherita Hack, con i manuali d’indignazione, i Saviani, i Papa Francesco interscambiabili con gli Umberto Veronesi, come pure gli Ascanio Celestini con i Fabio Volo. E perfino il libro di Rosario Crocetta c’è, messo vicino al Re di Coppe, tanto è il livello se ormai anche le pulci – sia consentita la citazione “etnica” – hanno la tosse e ai pidocchi è somministrata l’estrema unzione.
Forse la legge della domanda e dell’offerta impone tutto ciò. In punta di piedi o no, in libreria, se non ci si dandinizza, nel senso di arrivare al livello di una Serena Dandini, non si può pensare di poter arrivare negli scaffali ed è per questo che torno sempre al punto D) di cui sopra e perciò, quasi chiamo Merlo e glielo dico davvero: “Scappiamo!”.
Dove dobbiamo andare, io e lui, se c’è questo andazzo. In edicola c’è ancora quel margine di irregolarità che nella libreria è inconcepibile, trionfa quell’abitudine che fa da garanzia alla retorica. Il giornalismo fatto volume e messo in catalogo passa per tramite della severgninizzazione perché i grandi numeri, si sa, si fanno solo con chi non compra i libri ed è pure vero che i titoli più venduti sono anche i meno letti ma – scrittura a parte, già da compratori – si rischia di fare una brutta fine a furia di frequentare le librerie. Ed è la fine di un interesse culturale umanistico, il ginepraio dei titoli. Tutte quella facce dell’album unico delle coscienze altro non è che il requiem dei licei e delle università.
E’ la disperazione di Giovanni Gentile, la libreria, oggi. Dai buchi del deficit intellettuale non se ne cava il ragno di un ragionamento. Nella prevalenza del banale, infatti, c’è la sconfitta del senso critico e non può essere altrimenti a giudicare dalle facce.
In punta di piedi, dunque, arrivo al punto. C’è tutta una schiatta di acculturati, tutti di ricco pelo dotati, che vogliono solo il verso giusto. E’ gente che non accetterà mai di ritrovarsi spettinata. E’ tutta una clientela derivata da anni e anni di professoresse democratiche, quelle col cerchietto in testa. C’è tutta una pedagogia della legalità e dei diritti civili, infatti – specie in Italia, periferia di ogni periferia – che s’incardina nell’obbedienza acritica a tutta l’officina declamatoria dell’antimafia, dell’antifascismo e dell’irenismo multiculturale da latte alle ginocchia. Il senonoraquandismo, diocenescampi, quello che in politica fa sbocciare gli Ignazio Marino, in libreria produce Michela Marzano o – Allah mi protegga – Roberta De Monticelli.
La gnagnera del sentito dire issa sugli scudi del successo i Vito Mancuso perché poi i filosofemi sono affidati ad Adriano Celentano, così come le fumisterie della voga sono evocate nella maschera di Toni Servillo che non è solo un attore di larghe vedute ma un tipo che nel fondo dell’anima sua nasconde qualcosa, magari un istinto infallibile a scegliere la smorfia per via di quel che gli corre davanti agli occhi: illegalità, sopruso, menzogna e violenza. Fa la smorfia e accende di vibrante catarsi il suo pubblico di professoresse, democratiche e con l’immancabile cerchietto in testa.
Confesso che mi piacerebbe da pazzi averla questa benedetta gnagnera per via del guadagno che se ne ricava e per vedere, anche, l’effetto che fa a guadagnarsi una platea – gemmata da siffatti cespugli, tutti nani?– e godere così di tutte quelle scorciatoie mentali, uguali e in continuità, in tema di riflessi condizionati, a quelle proprie dell’antica folla delle beghine. Ricordate? Tutte terrorizzate, ieri, nel vedere un paio di cosce nude come oggi indignate se mai qualcuno osa dire che Nanni Moretti, con tutto il rispetto per le bande musicali, è solo un trombone, degno del risentimento da ceto medio riflessivo, così come Pasolini è solo un tic. Più precisamente un’interferenza tipica da Rai Radio3.
Il mercato dell’editoria vanta un pubblico, una clientela, molto ignorante. Questo è il punto, giunti in punta di piedi ed è di un’ignoranza, però, assai particolare e che sta un gradino più su avendo posato piede nella postazione del regime culturale i cui mattoni sono solo i luoghi comuni. Non è un caso che in Italia, da sempre, le idee entrano in testa con i motivi di una canzone, si passa da Ciripiripiì che bel nasin a Jovanotti senza sforzo alcuno ben consapevoli che le idee, per dirla con Leo Longanesi, “si fondano su una parola soltanto, letta o udita a caso”.
Lavora di concetto il frequentatore delle librerie, non ha studiato veramente ma sa quel che serve di tutte le piccole cose che danno anima alla monotonia del pensare correttamente e perciò sa dire no alla guerra, sì alle identità di genere, no alla violenza sugli animali, sì all’eutanasia e così via lungo il catalogo dei “concetti” precotti purché mai e poi mai si deragli rispetto al pantheon obbligato, con quel Gramsci poi, già di per sé il migliore di tutto il loro mondo, che non vale un’unghia di Giuseppe Prezzolini, di Giovanni Papini e di Giorgio Colli se poi vogliamo veleggiare nelle sfere della sapienza filosofica dove un Giovanni Gentile (cui nessuno, a differenza di Gramsci, riconosce il martirio) è un gigante mentre Benedetto Croce gli sta dietro, molto dietro, senza per questo cadere nel gioco stupido di destra e sinistra dato che vale, fortissimamente vale, il paradigma di Michele Serra quando così decreta: “Doppia è la sfortuna dello scrittore di destra. Quelli di sinistra non lo leggono perché, appunto, è di destra. Quelli di destra, invece, non leggono”.
Questa è la vigna dove ci si trova a zappare in materia di libri. L’industria editoriale che dovrebbe cercare tutti i possibili innesti preferisce accarezzare e vezzeggiare, i tralci soliti, evitando accuratamente il contropelo di idee e di parole controverse per non impegnarsi in qualità, in eccellenza e in libertà.
In dispendiose qualità, in costose eccellenze, in ricchissime libertà. Ecco, questo è il punto, in punta di piedi. E con queste librerie qui non ci sarà verso di recuperare i grandi dimenticati della cultura italiana: Enrico Pea, Silvio D’Arzo, Angelo Fiore, Antonino Pizzuto, Antonio Aniante, Mario Pomilio, Ugo Betti e Dante Virgili. Il pubblico dei lettori, ormai, è solo il concime necessario a nutrire il conformismo e gli autori, le star di tutto questo olimpo di opinion maker, assomigliano sempre di più ai loro lettori. Parlano a loro, ai clienti, in un lingua accessibile già collaudata nei divani delle trasmissioni più alla moda dove ciascuno vuole sentire ciò che già gli abbaia in petto e mai qualcosa che, al contrario, possa galleggiare in testa e far scattare un dubbio, una disobbedienza, un forte e chiaro no.
Le librerie dei librai, quelli di vecchia scuola, si riconoscono dalle vetrine. Loro, questi librai, sono gli eroi chiamati a sostegno dei licei e delle università. E sono quelli che negli allestimenti delle vetrine, accanto ai Severgnini o altri simili, raccattati nelle ospitate delle trasmissioni giuste, senza prepotenza – tanta è scontata la vittoria degli scontrini – mettono le “Figure bizantine” di Diehl, gli spazi letterari di Grecia e Roma e i classici che sono come i galenici nelle farmacie, sempre indispensabili.
Se la vetrina di una libreria non è una scoperta ma ti fa dire “ah, guarda, quello l’ho visto su Vanity Fair” è il momento di tornare al punto A) B) C) D) ed E), soprattutto. Libri come “Sesso e carattere” o i “Poeti del Cinquecento”, ultimo volume della letteratura Ricciardi, si possono trovare solo in percorsi unici e irripetibili, tra passeggiate, amici e solo in certe librerie. Quelle che si aprono con chiavi che sono mondi. Le vere librerie, e lo sanno bene i clienti, hanno porte regali. E si varcano in punta di piedi. Sempre cercando un altro punto.
“Anche gli angeli”. Così si chiama la bellissima libreria di Noto da dove esco fuori, scornato, tanto è invincibile il dettato dell’ideologicamente corretto. Mi ritrovo per strada e, in punta di piedi, ops, di zoccoli caprini, metto il punto con un assaggio di mandorla e bianco mangiare. In segno di devozione al sommo poeta, Ibn Hamdis, che in questa città ebbe i natali.
*da Il Foglio.it