Fermati dunque, sei così bello. Landon Donovan lascia il calcio, così come aveva annunciato già ad agosto, dopo aver vinto il campionato statunitense con i suoi Los Angeles Galaxy. Grazie ad una prestazione monstre dell’irlandese Robbie Keane (ve lo ricordate, stritolato e bidonato ai tempi della Grande Inter di Massimo Moratti?), Donovan – californiano di Ontario – può lasciare il soccer da superstar. A casa sua.
Dietro la storia sportiva di Capitan America (che fantasia, questi giornali eh?) c’è quella dell’intero soccer: tanti buoni propositi, tante promesse. E mai, mai e poi mai quel salto di qualità che fa dannare il ct Klinsmann, capace di trasformare, finalmente, gli Usa in una superpotenza o, quantomeno, in una dignitosa espressione del calcio mondiale, almeno all’altezza con il prestigioso palmares americano negli altri sport di squadra.
Eppure la storia del calcio americano era cominciata con un’epopea di quelle a cui Hollywood dedicherebbe un’intera saga. Dopo la fugace apparizione alla seconda edizione dei Mondiali del 1934, è nel Brasile di Getulio Vargas e Zizinho che andrà in scena una storia destinata a scrivere la leggenda di quello che tutti chiamano football e che in America – indovinate un po’ perché – si chiama soccer. Nel 1950 la guerra che ha devastato l’Europa e il mondo è, praticamente, appena finita. Lo sport è strumento di normalizzazione, pacificazione e risveglio dai torpori metallici e dagli incubi atomici. Il calcio decide di riprendere i Mondiali e la Fifa si affida al Brasile di Vargas per l’organizzazione dell’evento che, nei piani del Presidente, dovrebbe consolidare la sua popolarità presso il popolo carioca e costituire il suo personalissimo ingresso nella “grande società” internazionale. Sarà una pagina mitologica del calcio. E quando risuonò il suono dello “sparo udito da tutto il mondo”, Obdulio Varela non aveva ancora manco pensato di essere al Maracanà a incoraggiare i suoi compagni dell’Uruguay: “Los afuera son de palo”, non aveva ancora attaccato al muro il dirigente della Celeste che non credeva nelle potenzialità di Ghiggia e Schiaffino, non aveva ancora eseguito la sinfonia del Maracanazo che fece piangere milioni e milioni di persone.
Per la prima volta nella storia i Maestri inglesi si son decisi a scendere dall’Olimpo del football per giocare a palla contro i comuni mortali. I Bianchi hanno una squadra da paura. C’è sir Stanley Matthews, per esempio. Sono, ovviamente, i favoriti tra i favoriti. Il 29 giugno, a Belo Horizonte, i sudditi di sua Maestà devono affrontare una truppa di dilettanti che hanno pure un altro peccato originale: sono americani, hanno l’ardire di qualificarsi come loro “cugini” ma l’orgoglio inglese rifiuta di considerarli tali. Il Tea Party brucia ancora, nonostante due guerre mondiali combattute e vinte fianco a fianco.
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I Tre Leoni scenderanno in campo con una formazione imbottita di seconde e terze scelte. Facciamoli riposare, quelli forti. La stessa identica presunzione che – dodici anni prima – indusse il Brasile a non schierare il diamante nero Leonidas consegnando all’Italia il Mondiale di casa nel ’38. Ma gli americani non sono minimamente all’altezza di Colausso, Piola e Meazza. Però sono tosti e non vogliono perdere. Hanno lavorato a lungo, nel fango e tra le pallonate, vogliono dimostrare agli altezzosi Maestri che cosa è capace di compiere la volontà dell’uomo. E così, al 37esimo, la nemesi indirizza il testone di Joe Gatjaens a colpire la palla che si infilerà alle spalle del portiere Bert Williams. Gatjaens, secondo la leggenda, faceva il cameriere. Papà belga, mamma di Haiti, era nato a Port-au-Prince, capitale della terra degli stregoni e del vudù. Indossò la casacca a stelle e strisce, diventandone il primo eroe, perché dichiarò di voler prendere la cittadinanza Usa. Al termine di quegli eroci mondiali se ne andò a giocare in Francia e poi tornò ad Haiti dove, sempre secondo la leggenda, venne fucilato dai sanguinari Tonton Macoutes di Papa Doc Duvalier.
Dopo il gol che dimostrò al mondo l’umanità pallonara dell’Inghilterra dei Maestri, gli Usa non riuscirono ad imporsi nell’unico sport in cui – per anni – l’Urss non potè mai temere di perdere la guerra fredda. Erano gli anni Cinquanta, quelli di Fonzie e di Happy Days. Ma pure del maccartismo. Il calcio, fenomeno europeo in cui eccellevano i “comunisti”, cominciò ad essere guardato con sfavore. Perché perder tempo a pennellare un pallone quando la gioventù statunitense avrebbe potuto misurarsi nell’ennesimo discendente del calcio e del rubgy, il football americano.
Il soccer, nonostante l’impresa di Gatjaens e compagnia, rimase perciò roba da comunisti. Lo spiega, benissimo, in “Guida alla Coppa del Mondo per tifosi dotati di cervello” Dave Eggers che ricorda gli “insegnamenti” del suo professore di educazione fisica: “Non metteva mai il calcio nelle sue lezioni perché preferiva gli sport americani decorosi e onesti in cui si usavano le mani. Gli sport in cui non si utilizzavano le mani, disse, erano sport comunisti praticati da russi, polacchi, tedeschi e altri bolscevichi. Usare le mani nello sport era da americani, usare i piedi era prerogativa dei seguaci di Marx e Lenin”. Il pallone, perciò, si trovò schierato nella guerra fredda dalla parte di Ivan Drago. In fondo, il calcio era sport da immigrati e la sua diffusione ha avuto i primi germi proprio grazie a masse di marinai, commercianti, minatori e stranieri trapiantati. E poi, il fatto che l’eroe della squadra yankee che abbattè l’arroganza inglese fosse un mulatto non poteva certo accendere i cuori nella nazione del Ku Klux Klan, della segregazione razziale Wasp che da lì a poco avrebbe subito la furibonda ribellione di quelli che, fino a quel momento, erano solo “poveri negri”.
Di calcio, perciò, non si parlò più fino agli anni Settanta. Fino a quando due fratelli turchi, che di mestiere facevano i discografici, decisero che a New York dovesse avere una squadra di calcio all’altezza della città, degli Usa e del loro ruolo nel Mondo. Era il 1970 quando Ahmet e Nesuhi Ertegun s’inventarono i Cosmos. Che finanziarono con investimenti degni degli sceicchi e degli oligarchi russi che oggi maramaldeggiano nel calcio del Vecchio Continente. Nel 1975 i “Mo’s” ingaggiarono, a suon di dollari, niente-poco-di-meno-che Pelè, il calciatore più forte del mondo.
La perla nera incantò portando i Cosmos in vetta al calcio nordamericano. Arrivarono poi, in ordine sparso, Franz Beckenbauer e Johan Neeskens, Giorgione Chinaglia e l’inseparabile Pino Wilson. Tanti soldi, stadi “americani” (cioè da football con le linee delle yardes!), avversari a dir poco trascurabili. Il sogno di ogni campione a fine carriera. Non è un caso, perciò, che ancora oggi l’immaginario collettivo disegni il campionato statunitense come una mezza barzelletta popolata da Profeti agli ultimi dribbling che insegnano pallone ad una caterva di volenterosi dilettanti.
E pure il cinema c’ha messo lo zampino cristallizzando il soccer nel torneo da paesone in cui il bolso Andrea Margheritoni, “il bomber di mortadella” interpretato dal mitico Andrea Roncato in “Mezzo destro mezzo sinistro, due calciatori senza pallone” con il sodale Gigi Sammarchi, si faceva espellere volontariamente dall’arbitro ciccione per poter, boccaccescamente, intrattenersi con la di lui signora. Intanto erano arrivati gli anni ’80. Qualcosa, di lì a breve, sarebbe dovuto succedere.
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Usa ’94 è stato un grande Mondiale. A prescindere dall’Italia. Le lacrime di Franco Baresi, l’errore di Roberto Baggio.. E per arrivarci gli schemi di Arrigo Sacchi, la grande paura al girone di qualificazione, la smanacciata di Pagliuca contro l’Irlanda del giovanissimo Roy Keane, il terrore nero al cospetto delle Aquile verdi nigeriane, e il riscatto contro la Spagna di Hierro, Zubizarreta e Luis Enrique, il trionfo contro la tremenda Bulgaria di Hristo Stoichkov. E la maledetta finale contro il Brasile più brutto della storia carioca (almeno fino alle stelline filanti di Felipao Scolari nell’ultimo Mondiale). Quello, però, fu un mondiale storico anche per altri motivi. L’ultimo gol internazionale di Diego Armando Maradona, nel 4-0 rifilato alla Grecia che ancora doveva conoscere i fasti di Otto Rehhagel, Basinas e Zagorakis. Solo l’antidoping fu in grado di fermare il canto del Cigno del Pibe de Oro. ll record di nonno Roger Milla: a quarantadue anni capace ancora di segnare il gol della bandiera per il Camerun contro la Russia dell’Ufo Oleg Salenko. Finì sei a uno per la rappresentativa della Federazione, Salenko segnò cinque volte. Anche questo, un record mondiale finora imbattuto. Dopo di che il puntero venuto dal freddo, scomparve.
E fu il Mondiale che costò la vita ad Andres Escobar, aristocratico difensore dell’Atletico Nacional di Medellin “colpevole” dell’autogol che estrometterà la “Colombia delle meraviglie” dalla fase finale e per questo “punito” con dodici colpi di pistola, all’uscita di un ristorante, da tale Humbero Munoz Castro che sarebbe stato ingaggiato alla bisogna dalla malavita locale. I cartelli fecero pagare ad Escobar, secondo la vulgata, il fatto che i boss del narcotraffico avrebbe perso milioni di dollari al totonero per colpa dell’autogol che si trasformò nella clamorosa eliminazione della squadra del ct futurista Maturana. Quell’autogol significò la sconfitta colombiana per due a uno. Contro i funamboli sudamericani sfibrati dalle pressioni a mano armata del loro stesso tifo, giocavano gli Stati Uniti.
Gli yankee usciranno subito agli ottavi. Ma a testa alta. Solo il Brasile, che diventerà campione, riuscì ad aver ragione dei padroni di casa. I carioca tristi del ct Parreira dovettero attendere fino al 72esimo quando Bebeto finalmente forzò la porta difesa da Tony Meola. Uno a zero. Bastò al peggior Brasile della storia (Scolari escluso) per andare avanti e superare i padroni di casa. Che si erano affidati allo sciamano Bora Milutinovic. Una vera leggenda. Ha allenato ovunque, chiunque e in qualsiasi condizione. Il San Patrizio del Pallone, un vero missionario della pedata che, abbandonata la natia Jugoslavia, ha insegnato i sacri misteri del football tra i barbari infedeli. Quella formazione era un rebus indecifrabile. Tra i pali, il capitano Tony Meola, figlio di un immigrato originario di Avellino che, al liceo, preferì il calcio al fighissimo basket. C’era pure un Balboa, in campo. Marcelo, non Rocky come ironizzarono tutti ma proprio tutti i ragazzini italiani dell’epoca. E non era nemmeno italiano, vantando ascendenze argentine. Faceva il difensore e fu il primo soccerman a tagliare il traguardo delle cento presenze con la casacca a stelle e strisce. Giusto un anno dopo Usa ’94. La star della squadra, però, era un altro difensore. Alto, grosso, barba e folta chioma rossa. Un bellissimo redneck che immagineresti in salopette di jeans, sulla sedia a dondolo con la spiga di grano tra le labbra, a biascicare canzoni country aspettando che qualcuno gli passi un bicchiere di whiskey. Si chiamava Alexi Lalas e dopo quei mondiali arrivò in Italia, in serie A, al Padova. E nella storia, Lalas, c’è rimasto. Da noi, è ufficialmente il primo calciatore Usa in Serie A. In Veneto si ricordano ancora le fughe dal ritiro, le esibizioni musicali con la chitarra, il suo gruppo rock, il look alla Bruce Springsteen, alcune terribili papere che costarono punti preziosi ai biancoscudati patavini e il gol rifilato al Super Milan di Fabio Capello.
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Negli Stati Uniti, chissà perché, è diventato subito una leggenda del pallone. E qui, tra i riccioli rossicci dello stopper, si trovano i germi dell’attuale idiosincrasia tra il soccer e il grande pubblico americano. Lalas per il solo fatto di aver giocato in Italia diventa, in un film delle famigeratissime gemelle Mary-Kate ed Ashley Olsen, “il calciatore più forte del mondo”. Ripeti una bugia cento volte e diventerà una verità. Con il successo del film “Due gemelle nel Pallone”, negli Usa si consoliderà la fama di super-campionissimo di Lalas e l’ultimo, terribile, pregiudizio: da sport “comunista”, il soccer era diventato roba per signorinelle in preda ai primi scompensi ormonali. La sorte del calcio negli Usa era, definitivamente, segnata.
Così il grande pubblico americano ha preso a snobbare il pallone. Per i mondiali di vent’anni fa s’erano fatte le cose in grande. Si immaginava che, dopo la celebrazione della liturgia del Mondiale, il soccer sarebbe finalmente diventato cittadino Usa. Presentarono nove stadi nuovi di zecca o ristrutturati da cima a fondo per celebrare lo sport degli Sport. Pasadena, Chicago, New York, quasi ovunque i templi del football hanno dovuto subire una sorta di riqualificazione. O meglio, hanno finito per ospitare altri sport, concerti, messe evangeliche per combattere la desertificazione. A Detroit, poi, il disastro. Qui costruirono, anzi, rifecero, il Silverdome, impianto ultramoderno capace di ospitare più di 77mila spettatori. La crisi che ha azzoppato l’economia della città dei motori ha finito per trasformare lo stadio in un cimitero. Roba che, al confronto, i postumi di Italia ’90 son robetta da dilettanti.
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Oggi, il calcio Usa si è affidato all’intuito di una (ex) pantegana bionda con la vocazione del guru. Jurgen Klinsmann ha guidato la rappresentativa yankee nell’esperienza mondiale in Brasile. L’ex centravanti di Inter, Sampdoria e della Germania sa benissimo che gli Stati Uniti diventeranno grandi solo con un cambio di passo, quel maledetto salto di qualità che passa prima per la testa e poi per le gambe. Guida gli States a passare i gironi (alle spalle dei tedeschi di Loew e prima del deludente Portogallo di Cristiano Ronaldo e del Ghana superstar d’Africa) uscendo dalla kermesse solo contro il Belgio dei fenomeni, che hanno avuto ragione degli americani solo ai tempi supplementari con Lukaku e De Bruyne. Persino Barack Obama, sfidando il risentimento dell’America profonda, decide di prodursi in un endorsement al soccer che affiderà a Twitter. Una dichiarazione d’amore, però, che finirà per allontanare ancor di più il soccer dai cuori degli americani più conservatori. Gli stessi che, sessantaquattro anni dopo l’impresa di Gatjaens e compagnia, non gli hanno mai fatto ottenere la green card in Usa. Obama, infatti, viene percepito come “comunista” e troppo liberal-chic. Capito, il corto circuito? Il soccer sarebbe lo sport degli intellettuali, ma non ditelo alla gauche europea..
Nella squadra amata da Obama non c’era Landon Donovan. Capitan America, caterve di gol in casa, un destino da promessa, un contratto con il Leverkusen scontato praticamente tutto in America, una fugacissima apparizione con il Bayern Monaco (sei presenze e zero gol), la resurrezione a Liverpool, sponda Everton, il ritorno in California. La fine, l’addio, dopo essere diventato il marcatore più prolifico di gol e pure di assist che la Major League Soccer abbia mai visto agitarsi sui suoi campi. Una storia d’una eterna promessa che non è mai sbocciata del tutto. Un talento abbastanza particolare che non s’è reso mai veramente credibilissimo agli occhi degli altezzosi europei e dei boriosi sudamericani. La stessa, identica, storia del soccer Usa. Nessuno è profeta in Patria, tranne i calciatori yankee. E quando vinci, fermati. Non andare oltre.