Hunger Strikers\3. La stretta cieca della Thatcher, così iniziò lo sciopero nelle carceri

La testimonianza dell'arcivescovo O'Fiaich in visita a Long Kesh: "Lasciando da parte l'essere umano, difficilmente si lascerebbe vivere un animale in tali condizioni"

Bobby Sands in “66 days”

Le vicende d’Irlanda dipendevano ancora di più da Londra e dal suo quadro politico: l’11 febbraio 1975 era infatti divenuta leader del Partito Conservatore Margareth Thatcher la quale, dopo aver vinto in maniera schiacciante le elezioni del 3 maggio 1979, dal giorno successivo avrebbe ricoperto la carica di Primo Ministro (ruolo mantenuto fino al 28 novembre 1990 quando fu costretta a dimettersi a causa della sfiducia del proprio partito), facendo della lotta al repubblicanesimo uno dei capisaldi della propria permanenza al 10 di Downing Street; c’era però un’altra questione, visto che il 1 marzo del 1976 il precedente esecutivo, Laburista, aveva abolito lo “status di prigioniero politico, cercando di schiacciare la lotta armata, partendo  dalla volontà di accomunare i militanti che venivano arrestati ai semplici criminali comuni.

Nel corso degli anni, anche in sede giudiziaria, prove alla mano, si è accertato quanto vasto e stretto fosse il legame  tra i paramilitari lealisti e i servizi di stanza nell’isola irlandese: negli anni più drammatici del conflitto, Londra non esitò a compiere delle operazioni d’intelligence direttamente nel territorio della Repubblica d’Irlanda, organizzando addirittura (come appurato negli anni ‘90), in collaborazione con la polizia nordirlandese e utilizzando l’UVF come braccio esecutivo (dopo aver per altro corrotto alcuni ufficiali di sicurezza dell’Eire), i terribili attentati di Dublino e  Monaghan, che con quattro autobombe uccisero 33 civili il  17 maggio 1974; questo genere di operazioni, insieme agli scioperi organizzati e infiltrati, si erano ripetute nel 1972 e nel 1974 per far fallire ogni cessate il fuoco ma anche, sempre in quel fatidico 1974, per intralciare l’Accordo di Sunningdale del 9 dicembre 1973 (che prevedeva, nelle sue tre sezioni, la creazione di un’Assemblea dell’Irlanda del Nord, un esecutivo dell’Irlanda del Nord condiviso tra il gruppo lealista moderato e quello nazionalista socialdemocratico, oltreché il Consiglio d’Irlanda, istituzione che abbracciava entrambi i lati del confine, tra l’Irlanda del Nord e la Repubblica irlandese).

Fu così che tra uno sciopero e l’altro “dei lavoratori dell’Ulster”, nei quali leaders spesso si celavano direttamente agenti britannici, la stessa Irlanda si era ritrovata al centro delle dispute tra due agenzie di controspionaggio britannico, l’MI5 e l’MI6, con la prima che era favorevole ad accrescere le violenze contro l’IRA, mentre l’MI6 si era impegnata per elaborare una soluzione politica, assieme al governo di Harold Wilson, definitivamente uscito dalla scena politica il 5 aprile del 1976, non prima che il suo governo avesse eliminato lo status di prigioniero politico ai militanti arrestati.

Sempre a partire dalla metà degli anni ’70, Londra aveva alzato ulteriormente il tiro, applicando al contesto nordirlandese una duplice tattica anti-insurrezionale, nel contempo cercando anche di preservare la propria immagine di fronte alla comunità internazionale: da una parte, con la cosiddetta “ulsterizzazione”, la gestione della sicurezza e dell’ordine pubblico, venne gradualmente assegnata alle forze di polizia, portando alla crescita esponenziale degli effettivi britannici in loco, dall’altra si cercò di attuare la “criminalizzazione” del conflitto, elaborando la negazione della dimensione politica del conflitto.

In questo modo, l’IRA perse il proprio connotato di “esercito combattente” o quantomeno di “gruppo di insorti”, venendo ridotta ad una manica di banditi, al massimo dei malavitosi estremisti cattolici, dei criminali terroristi, un minus che in quanto tale faceva venir meno le rigide prescrizioni statuite nella Convenzioni di Ginevra del 1949: dal marzo 1976, gli arrestati sulla base delle norme anti-terrorismo, perdevano i loro privilegi, trasformati in criminali comuni; nelle celle venivano rimossi gli arredamenti e potevano rimanere un materasso, delle coperte, un vaso da notte e l’immancabile Bibbia.

I militanti venivano sistematicamente torturati con le più sofisticate tecniche d’interrogatorio importate direttamente dall’Inghilterra, come per altro denunciato in un rapporto dall’Eire già in data 2 settembre 1976, di fronte alla Commissione Europea dei Diritti dell’uomo di Strasburgo, mentre lo stato d’emergenza, la sospensione dell’Habeas Corpus, la presunzione di colpevolezza in caso di possesso illegale di un’arma, l’accettazione delle confessioni estorte senza possibilità di confronto, il fermo di polizia fino a sette giorni senza alcuna accusa (solo alcune delle principali statuizioni presenti nell’Emergency Provision Act del 1973 e nel Prevention of Terrorism del 1974, emanato dopo i fatti di Birmingham) costituivano un quadro giuridico dai tratti oscuri ed inquietanti, che ingrossavano a dismisura le presenze nelle celle e nelle camere di sicurezza.

Fatto sta, che in data 11 giugno 1981 nelle carceri nordirlandesi vi erano 1244 uomini e circa 50 donne, dei quali solo 966 godevano dello status di prigioniero politico, in quanto arrestati prima del marzo 1976, sebbene tutti quanti fossero stati giudicati dai tribunali speciali, le famigerate Diplock Courts, istituite nel 1973, presiedute da un solo giudice e prive di giuria.

 

Le proteste in carcere: un nuovo fronte della lotta

Il primo prigioniero al quale lo status era stato negato, il 15 settembre 1976, fu il diciottenne Kieran Nugent: per protesta, il carcerato si rifiutò di indossare la divisa dell’istituto penitenziario di Maze ( “il labirinto”, a Belfast), dichiarandosi prigioniero politico e venendo di conseguenza subito confinato in una cella d’isolamento,  munito soltanto di una coperta per coprirsi; fu questa l’origine dell’espressione “on the blanket” (blanket significa letteralmente coperta), simboleggiante una privazione che per i carcerati verteva sull’impossibilità di avere vestiti, materiali per leggere o scrivere, ascoltare la radio, comunicare col mondo esterno, fare esercizio fisico.

I “blancket man”, protagonisti di quel tipo di protesta, erano rinchiusi in cella per ventitré ore; per di più, dopo 18 mesi di rimostranze, dal marzo 1978 i carcerati repubblicani si rifiutarono di dirigersi verso le docce per lavarsi (no wash protest), in quanto non volevano esporsi alle brutali violenze dei secondini che li aggredivano non appena mettevano un piede fuori dalle loro “stanze”.

Le guardie reagirono, si rifiutarono di fare le pulizie e di svuotare i buglioli con i bisogni, anzi cospargendone i contenuti direttamente sui pavimenti delle celle che così divennero delle enormi fogne, nelle quali i detenuti dovevano convivere con urina, escrementi, rifiuti.

Pidocchi e vermi divennero così compagni abituali, mentre lo Sinn Féin, nonostante quelli fossero gli anni delle innovative elaborazioni dottrinali di Adams, continuava nella sua storica campagna di astensionismo, dal momento che non concorreva alle elezioni per il parlamento di Westminster, istituzione non riconosciuta, bollata come illegale e simbolo dell’occupazione straniera, non facendo in verità molto per far evolvere la situazione politica: i repubblicani fuori dal carcere rimanevano così in stallo, dovendo questi affidarsi o alla sola lotta armata o appoggiarsi a partiti minori come lo SDLP di John Hume (Social Democratic and Labour Party), partito socialdemocratico moderato e filo-indipendentista che rifiutava apertamente la violenza e che non esitava a criticare e condannare le campagne dell’IRA.

Il primate cattolico, arcivescovo irlandese Tomàs O’Fiaich cui fu permesso nel luglio 1978 di visitare i Blocchi H (la sezione del carcere di Belfast di Maze dove venivano stipati i repubblicani arrestati), richiesto di un parere chiosò:

“Lasciando da parte l’essere umano, difficilmente si lascerebbe vivere un animale in tali condizioni. L’immagine che più si avvicina a ciò che ho visto è quella delle centinaia di homeless che vivono nelle fogne di Calcutta. In alcune celle il cattivo odore e la sporcizia, con i resti di cibo e di escrementi umani sparsi sulle pareti, erano insopportabili. In due di esse non riuscii a parlare per paura di vomitare.”

Tomàs O’Fiaich (arcivescovo irlandese che visitò nel 1978 i famigerati Blocchi H di Belfast)

Di fronte a questa situazione estrema, il Governo inglese non faceva altro che colpevolizzare gli ospiti della struttura detentiva, aumentando indiscriminatamente la repressione carceraria, che ben prestò colpì anche le detenute del carcere di Armagh, ree di aver espresso solidarietà verso i compagni di Belfast: oltre alle percosse ricevute, le detenute vennero costrette a rimanere nelle loro celle per ventiquattro ore al giorno, senza potersi servire dei bagni o ricevere assistenza medica.

Nonostante tutto, l’età media molto bassa, che tendenzialmente oscillava tra i 18 e i 30 anni, la componente ideologica, il supporto della fede, furono tutti elementi che servivano per tener duro e anzi per alzare ancora l’asticella: nell’ottobre del 1980, alcuni prigionieri decisero di intraprendere uno sciopero della fame, analogamente a quanto fatto tra maggio e il giugno del 1972 nel carcere di Crumlin Road di Belfast, ottenendo in quel tempo il riconoscimento di prigioniero politico, come detto poi abolito unilateralmente dalle autorità nel marzo 1976.

Il 27 ottobre, sette detenuti cominciarono lo sciopero, ai quali, il 1º dicembre, si ne aggiunsero altri 30, sempre del carcere di Maze, nonché tre detenute del carcere femminile di Armagh (Mairéad Farrell, Mary Doyle e Mairéad Nugent).

Le richieste avanzate erano strutturate su cinque punti:

Nell’ottobre del 1979 era stato anche fondato il National H-Block/Armagh Committee, con l’obiettivo nazionale di lanciare una campagna per la reintroduzione dello status di prigioniero politico nelle carceri di Long Kesh e Armagh: il comitato era formato da diverse anime della galassia repubblicana, tra cui diversi membri dello Sinn Féin, dell’Irish Republican Socialist Party (IRSP, il braccio politico dell’Irish National Liberation Army),  oltreché da comuni cittadini che appoggiavano le rivendicazioni inerenti i cinque punti già citati.

Pur non mancando le pressioni provenienti da molti ambienti, come l’influente chiesa cattolica irlandese e alcuni politici statunitensi di origine irlandese, tra i quali spiccava Edward Kennedy (il fratello di John e Robert Kennedy), il governo guidato da Margaret Thatcher si rifiutava ostinatamente di arrivare ad un qualche compromesso con i detenuti, negando ripetutamente il più minuscolo spiraglio di negoziazione verso il ripristino di una condizione legale diversa da quella del criminale comune.

Il 18 dicembre, dopo 53 giorni di digiuno, quando uno dei sette (Sean McKenna) era ormai in fin di vita, gli altri sei decisero di terminare lo sciopero, anche grazie all’intermediazione del primate O’Fiaich e del Vescovo di Derry Edward Daly, sulla base di un confuso documento fatto arrivare attraverso intermediari dal Governo britannico, nel quale questo sembrava disposto ad accogliere tutte le richieste, eccetto la questione dello status; tuttavia, le autorità britanniche ritrattarono ben presto quanto timidamente sembravano aver concesso e così, dal gennaio 1981, le trattative tra i prigionieri e le istituzioni carcerarie si arenarono del tutto, per poi bloccarsi definitivamente: tanto i detenuti, quanto il primate O’Fiaich e il Vescovo di Derry Edward Daly, accusarono Londra di aver disatteso i patti e di aver utilizzato uno stratagemma per far interrompere con l’inganno la protesta.

Leggi le puntate precedenti: 

Hungers strikers2. Gli anni ’70 in Irlanda: la riorganizzazione e lo scontro militare

 

Hunger Strikers1. Dall’escalation di tensioni nell’Irlanda del Nord alla Bloody Sunday

Lorenzo Proietti

Lorenzo Proietti su Barbadillo.it

Exit mobile version