El Trinche (non) è morto

Tomas Felipe Carlovich è scomparso al mondo ma l'idea di calcio come dono di sé di cui è icona non sparirà mai

Alto, dinoccolato: il baricentro glielo avresti cercato tra le scapole. I capelli lunghi, e talora la barba. L’andatura caracollante che lo avresti detto un Cristo sul Golgota. Oppure Socrates. Un piede sinistro che in campo evocava potenze celesti. Giocò tre partite in massima serie, da ragazzo. Poi si dedicò (davvero) solo a due squadre, il Rivadavia prima e poi il “suo” Central Cordoba di Rosario. Perché così volle: nonostante il mondo tentasse di fargli accettare il suo destino da predestinato, da campione. E poi, diciamolo pure, era troppo lento e lezioso. Un giocoliere, anzi un toreador. Non era di quel mondo calcistico che, piano piano, andava convertendosi al fitness.

Tomas Felipe Carlovich è diventato negli anni l’icona di un calcio tanto antico il cui bisogno, usando una metafora abusata, è divenuto estremamente attuale. Perché? È assolutamente illogico ritenerlo un campione: la sua carriera è stata modesta. È del tutto folle ritenerlo un esempio: buttò via il suo immenso talento per far esibirsi in numeri sensazionali diretti più che a vincere, a divertire il pubblico, anzi il “suo” pubblico, quello che pagava felice il sovrapprezzo per vederlo giocare con la terza squadra di Rosario. È completamente irrazionale metterlo addirittura un gradino sopra al più grande di sempre, Lucifero Maradona. Ma fu proprio lui che lo incoronò, in quella celeberrima intervista rosarina: “Io il più grande qui? No, è stato El Trinche”.

 

Se però è vero che il calcio è prima di tutto passione, emozione, pelle d’oca, El Trinche è stato uno dei più grandi. E tutti lo abbiamo conosciuto, almeno una volta nella vita. Anche se sul volante che fece impazzire, esaltare e disperare Luis Cesar Menotti, c’è talmente poco che si può dire che nessuno l’abbia visto davvero.

In lui c’è tutto quello che gli altri non capiscono di noi, né capiranno mai. Ci sono quelle emozioni che pochi, fratelli nell’estasi sportiva, hanno gli strumenti per decrittare. La gambeta di Carlovich sei tu che piangi quando leggi il nome di un trequartista che al tuo collega d’ufficio non dice niente. Il suo lancio telecomandato è quella foto, quel vecchio video ricaricato su YouTube, che a mille altri non dice assolutamente nulla ma a te fa venire il magone. Perché tu c’eri, gli altri no e non sanno, né sapranno mai, cosa si sono persi.

Uno come El Trinche, l’uomo che faceva i doppi tunnel agli avversari se e quando glielo chiedeva il pubblico e che fece disperare per 45 minuti la Selecciòn del polacco Vladislao Cap, è uomo su cui sono sorte decine di leggende. Alcolista, ma lui era astemio; pescatore solitario della solitudine ineluttabile dei Buendìa di Garcia Marquez, ma lui solo non è stato mai: amava stare tra la sua gente che, quando lo vedeva in bici al Belgrano, ancora – riconoscente – gli tributava il saluto che si deve ai veterani di mille battaglie di cui conoscono tutto solo gli happy fews del Cordoba Central. Di uomini come lui ne è piena la provincia dell’impero del calcio. Sono quegli eroi che hanno esaltato, col loro talento, piazze che un cinico definirebbe marginali. Quello stesso talento lo hanno espresso donando gioia agli altri, lasciando in questi il sapore del sogno, la gratitudine immensa dello stupore che nessuna elucubrazione può contenere.

La sua gente non l’ha tradito, El Trinche. Né a Rosario né in ogni altro barrio del mondo. Ma è stato un delinquente, invece, che gli ha spaccato la testa per rubargli la bicicletta. È morto, Carlovich, dopo un giorno intero d’agonia. Al mondo era già scomparso, schiacciato dalla sua stessa leggenda. Chissà quante altre, di leggende, ne sorgeranno mentre continuano a piovere fiori gialli sul suo murale allo stadio Gabino Sosa.

 

 

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Giovanni Vasso

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