Economia. L’occasione perduta della Riforma Agraria e la necessità di un (nuovo) intervento

Una delle prime grandi questioni che l’Italia neo-repubblicana dovette affrontare fu la cosiddetta questione agraria. Infatti, già prima della fine della guerra, si alzavano, in tutto lo Stivale, le rivendicazione dei contadini che chiedevano insistentemente sia la cessazione dei contratti di latifondo e sia la certezza del reddito data dalla proprietà terriera.

Nel 1950, grazie alla forte volontà politica dei partiti del tempo, arrivò la Riforma agraria per le zone depresse del Sud proprio per risolvere le problematiche dette prima e per aiutare i contadini a sviluppare imprese agricole grazie alla creazione di enti ad hoc. Alla riforma, in più, si affiancò la creazione della Cassa per il Mezzogiorno, strumento pensato per essere utile al riammodernamento infrastrutturale per il Sud Italia e, inoltre, per il rilancio industriale del Meridione.

Essenzialmente, letta in termini di breve periodo, come afferma il professore Giulio Sapelli, la riforma porta all’instaurazione di un nuovo legame tra l’agricoltura e l’industria: con la prima che funge da mercato estero per l’espansione del capitalismo industriale, grazie all’intervento pubblico che apre a nuovi mercati.

Tuttavia questo processo, produsse anche l’esplosione di migrazione dalle zone arretrate verso il Nord industrializzato e  alla ricerca di nuova manodopera a basso prezzo: infatti l’eccessiva frammentazione delle terre ex-latifondistiche aveva portato la creazione di tante imprese agricole che per lo più  non riuscivano a produrre il reddito necessario per vivere. Negli anni del pieno boom economico, si conta perciò un calo drastico dell’occupazione agricola pari al 33%, manodopera che finisce nel settore industriale.

La riforma agraria fu di fatto, una mera operazione politica che servì alla Democrazia Cristiana  per accaparrarsi i voti dei contadini del sud a discapito del Partito Comunista. Nel processo di cambiamento agrario, non fu accolto, infatti, l’invito di Rossi-Doria che, più volte, sostenne che nel formulare la riforma bisognava ascoltare e accogliere i vari esperti di terra e di produzione: ovviamente l’invito non fu accolto e prevalse la logica politica.

A livello sociale la mancata progettualità di una riforma che desse una spinta vigorosa al settore, portò l’impoverimento dei contadini e lo spostamento di forza lavoro verso l’industria e l’emigrazione di massa. In più altro effetto fu la mancata creazione di forti aziende agricole che potessero creare un tipo di colture alternative a quelle tradizionali ed affrontare il mercato con successo; dopo il 1960 le spese in agricoltura scesero al di sotto del 50% a discapito dell’industrializzazione. L’Italia prese una nuova via, investendo sulle industrie e servizi, abbandonando di fatto il primario.

Paolo Caroccia

Paolo Caroccia su Barbadillo.it

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