Riprendiamo un inedito di Carmelo Bene pubblicato dal Corriere. Il tema è la visione del cinema per il gigante salentino
Il cinema, che non ha mai avuto cinema,
è sempre stato un plebiscito contro il buon gusto,
così come Nietzsche definisce il teatro.
S’attanaglia meglio del cinema.
Questa sala buia, o semi buia,
dove la gente va da tempo a sedersi
e non si capisce perché
a un certo punto si accenda un quadrato:
se lasciassero al buio anche quello, ecco….
Ma noi occidentali non siamo abituati,
c’è poco Oriente, ecco,
l’India facile non basta,
appunto,
a spegnere tutto,
come dovrebbe avvenire nei palcoscenici lirici, diciamo,
melodrammatici.
C’è sempre la regia,
il servizio buono,
tutte queste cose.
***
Non come la musica di Rossini, per esempio,
che è un precipitato di non eventi,
di non fatti,
o la musica di Verdi,
dove il teatro è già contenuto nella musica,
e non ha bisogno poi di ulteriori sviluppi dell’azione.
Scontato che attore derivi da, o debba il suo etimo ad agere,
e non ad agire.
Quindi, questa gentaglia che sfaccenda nel palcoscenico
ha allenato al teatro del Novento tutto un pubblico
-salvo gli abbonati, questa élite delle piccole masse, la tirannia delle plebi.
Ecco che vedono il n’importequoisme.
Il cinema non ne parliamo.
Insomma: è una celebrazione dei fratelli Lumière.
***
Perché non si può dire, dopo i Lumière, cosa ci sia stato
– se togli quel minimo di autospavento cercato a tutti i costi,
quell’attimo di smarrimento di certe tribù africane
davanti al treno dei Lumière –
io penso che la commemorazione duri dall’Ottocento.
E’ quella, che si perpetua.
Una celebrazione dove si finge d’incontrarsi,
organizzata per una specie di turismo di massa, gazzettiero;
una specie di Las Vegas povera,
per giornalisti di colore,
non poi tanto colorati,
né coloriti.
S’arrangiano, negli abbaini.
***
Non ha mai avuto una scrittura.
La scrittura cerca solo la scrittura.
Ogni autore deve innanzitutto far fuori se stesso
ed “essere straniero” ha detto giustamente Deleuze,
“nella propria lingua”.
Lui lo attribuiva a me perché io non adopero mai,
in teatro, la traduzione simultanea,
neanche all’estero,
neanche se mi producessi per i pigmei, o per i russi o per i lapponi
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