Da mesi il giamaicano, 31 anni, si sta impegnando per riconvertirsi al football. Sta girando come una trottola i ritiri di allenamento delle squadre più famose del mondo per tentare di darsi una chance pallonara. I precedenti non lo confortano. Passare a qualche altro sport, magari sì. Prima o poi, però, a Bolt una chance qualcuno gliela darà. Farà tanta panchina, tante dichiarazioni alla stampa, scenderà in campo a tempo scaduto. Insomma, come quando Gene Gnocchi si tolse lo sfizio di giocare con il Parma.
Se per giocare al calcio bastasse solo la corsa, a nessuno interesserebbe. La storia del pallone è piena di gente capace di marcare il campo da una bandierina all’altra, in ogni senso di marcia, più e più volte a partita. Epperò non basta. Ci vuole il talento, quello che ti fa vedere spazi, ti fa pennellare il pallone, ti fa volare a bloccare in cielo un meteorite sparato da centrocampo.
Insomma, l’avventura di Usain Bolt è una bella parentesi di un corridore a fine carriera che fa l’ambasciatore dello sport, ma che non diventerà mai un campionissimo. A dirla con termini d’una volta, è una simpatica americanata come quando – ricordate Rocky 3? – facevano sfidare i pugili con i lottatori di wrestling. Tutto bellissimo, pieno di lustri e paillette. Ma lo sport, e in questo caso il calcio, è un’altra cosa. Non basta saper correre. E non basta nemmeno un ottimo ufficio stampa.