Addio a Carlo Petrini, svelò con coraggio tutto “il fango del dio pallone”

Addio Carlo Petrini. Dopo Chinaglia, un altro volto da figurina Panini, icona della nostra infanzia, che se ne va. Prematuramente, verrebbe da dire, visto che aveva solo 64 anni. Ma poi basta pensare alla tragica fine di Piermario Morosini, sabato scorso, e ti rendi conto che in certi casi gli avverbi di tempo hanno poco senso.

Petrini, toscanaccio di Monticiano come Luciano Moggi, non era certo il volto pulito del football nostrano. Lontanissimo, in questo, dal povero Morosini. Attaccante talentuoso ma poco prolifico, nella sua carriera ha girato molte città e vestito tante maglie, forse troppe. Lecce, Genoa, Milan, Torino, Varese, Catanzaro, Ternana, Roma, Verona, Cesena, Bologna; prima di chiudere nelle serie minori con Savona, Cuneo e Rapallo. Al suo attivo la partecipazione alla vittoria di una Coppa Campioni con il Milan e di una Coppa Italia con il Torino. In mezzo il “buco nero” di due anni, dal 1980 all’82, in cui venne squalificato per il famoso scandalo del calcioscommesse: il primo, quello diPaolo Rossi, Wilson e Albertosi. E’ bene specificare perché adesso, ormai, ne scoppia uno all’anno.

Ma il nome di Carlo Petrini compare anche nelle famose indagini del procuratore Guariniello sul doping nel calcio, perché l’ex calciatore – malato e costretto da usurai e creditori a rifugiare in Francia negli anni Novanta – fu anche uno dei primi (e pochi) atleti a rompere il muro d’omertà sull’uso e abuso di farmaci negli spogliatoi. Nella sua autobiografia “Il fango del dio pallone” (Kaos Edizioni), uscita nel 2000, raccontò in prima persona fatti e fattacci del mondo della pelota degli anni Sessanta e Settanta. In particolare la pratica del doping, che a suo dire sarebbe già stata dilagante “ai vecchi tempi” e tollerata un po’ da tutti.

Il libro ebbe un certo successo e talune delle sue accuse, se non proprio provate, quanto meno non furono mai smentite. Di fatto l’immagine poco limpida del personaggio non l’aiutò a diventare un simbolo dello sport pulito. Anzi, molti lo accusarono di aver rovesciato fango sull’ambiente sportivo per bassi interessi personali. Petrini continuò a scrivere, sempre pubblicando per Kaos Edizioni e sempre raschiando il fondo del barile del calcio. Alla fine i suoi libri saranno otto, uno dei quali dedicato a Donato Bergamini, il calciatore del Cosenza misteriosamente nel 1989 con un suicidio che aveva tanto l’aspetto di un’esecuzione mafiosa (il fascicolo sulla sua morte di recente è stata riaperto). L’ultimo, “Lucianone da Monticiano”, uscito quest’anno, era invece incentrato sulla figura dell’ingombrante concittadino, fino a pochi anni fa l’uomo più potente del calcio italiano.

Petrini era ammalato da tempo di cancro, sapeva di non averne più per molto. Inoltre da anni era stato colpito da una grave forma di glaucoma che negli ultimi tempi l’aveva reso cieco. Una patologia, a detta dei medici che lo hanno curato, sottoponendolo a ben cinque interventi chirurgici, che potrebbe essere stata correlata all’assunzione dei tanti farmaci dopanti e no, avvenuta durante la carriera di calciatore. Nel 2006, insieme ad altri vecchi calciatori come Aldo Agroppi, aveva aderito all’associazione “Vittime del doping”, fondata dalla figlia di Bruno Beatrice, giocatore della Fiorentina morto a soli 39 anni per una leucemia, si dice, provocata dall’abuso di farmaci ai quali era stato sottoposto quando giocava nel club viola.

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