Gran parte dell’utenza pallonara italiana trova il rimedio a una telecronaca ritenuta fintamente imparziale, con una telecronaca parziale, parzialissima. Una telecronaca spudoratamente di parte, faziosa, che inveisca contro l’avversario. Che chiami i calciatori della nostra squadra con nomignoli, soprannomi, vezzeggiativi e a volte patetici e che entusiasmi il tifoso che è in noi appena la nostra squadra supera la metà campo. Che scateni la stessa nostra rabbia al fuorigioco non fischiato. Che esulti, in un infinito «gooool». Questo è quello che vogliono molti tifosi italiani, questo è quello che gli offrono Sky e Mediaset premium grazie all’opzione del secondo commento. Sabato sera a Carlo Pellegatti, decenni al seguito del Milan, voce rossonera su Mediaset, sono saltati i nervi. Per colpa di Antonio Conte, ritenuto il colpevole di quanto era accaduto in campo. Quello che a fine gara non aveva diritto di lamentarsi. Di cosa, poi, nell’ottica di un milanista?
Nella logica della parti la visione delle cose di Pellegatti non fa una grinza. Pellegatti ha semplicemente detto quello che milioni di milanisti pensavano in quello stesso momento. Resta il fatto che l’ha detto in diretta tv, dove certi toni, pur se nell’ambito di una telecronaca di parte, restano comunque esagerati. Lo ha riconosciuto il diretto interessato con un comunicato di scuse all’indomani della gara. «Pensavo di essere fuori onda», ha detto il commentatore rossonero.
Quella dei commentatori di parte e «delle deliranti telecronache da tifoso è diventata una moda», ha rilevato Livio Balestri sul sito del Guerin Sportivo. Telecronache «che possono avere un qualche senso a livello di squadra locale, o sui vari Milan, Inter, Juve channel, che sono organi ufficiali dei club. Ma sono mortificanti se ascoltate su tv nazionali». Tra le telecronache di parte e non passa tutta la differenza tra chi è giornalista e chi non lo è. Erano fior di giornalisti sportivi Gianni Brera, secondo alcuni genoano di facciata per rendersi imparziale rispetto ai grandi club, come lo era Paolo Valenti, la cui fede viola si è saputa solo dopo la morte. Tra giornalista e tifoso c’era un rapporto di fiducia. «Era il lettore che andava verso il giornalista» ha sottolineato Balestri.
Al limite, ma non è una novità, tenevano banco le contrapposizioni ideologiche forti, supportate da tesi. La polemica Nord/Sud, Brera contro Palumbo e Ghirelli. O la partigianeria di Giovanni Arpino – e anche in questo caso il rapporto controverso tra lui e Brera – cantore della Juventus, ma allo stesso tempo padrino di battesimo di Gianfelice Facchetti.
Al contrario di come funzionava ai tempi di Brera oggi la fa da padrone la figura del giornalista-tifoso. Il contesto generale è quello di una faziosità diffusa, contagiosa.
Si ha il sospetto che di fronte a certi atteggiamenti la moviola in campo, il giudice di linea o chissà quale altra trovata servano a poco. Nel senso che se ognuno rimane convinto delle sue tesi anche di fronte alle evidenze il problema è di matrice culturale. È la natura stessa del tifo – in greco nebbia – che a volte ci fa vedere un pallone al di qua o al di là della linea. Senza tenere presente che un arbitro, o un guardalinee, sono chiamati a decidere in una frazione di secondo.
Così, a seconda dei casi, quello stesso arbitro, può essere giudicato di parte, perché ha favorito la Juve per i milanisti, o al contrario il Milan per i bianconeri. Per paura di essere sfavoriti, per paura di essere vittima di un complotto. Il complottismo che, detto per inciso, ha a che fare col mondo del pallone già da decenni prima di Calciopoli.
*Dal Secolo d’Italia, rubrica Secolo Sportivo