Calcio. Gigi Meroni, la vita scapigliata del “beatnik del gol”

C’era un ragazzo che come tanti amava i Beatles e i Rolling Stones. Non solo: si vestiva come i quattro di Liverpool, ascoltava la stessa musica e voleva vivere libero dai condizionamenti dell’Italia, ancora chiusa e bigotta, degli Anni Sessanta. Tanto da andare a convivere con una donna separata. Anche lui, come i Fab Four, era un artista: dipingeva, disegnava da sé cravatte e abiti variopinti e originali. Ma il meglio lo dava su di un prato d’erba, con il pallone tra i piedi e la maglia granata numero 7 sulle spalle.

Si chiamava Gigi Meroni e morì 45 anni fa, il 15 ottobre del 1967, ad appena ventiquattr’anni. Era soprannominato “la farfalla granata”, oppure “il beatnik del gol”. I più anziani fra i tifosi che si assiepavano agli allenamenti sugli spalti del vecchio stadio Filadelfia (l’arena del Grande Torino), lo chiamavano con affetto e ironia “Calimero”. Per uno di quegli strani scherzi del destino, l’uomo che provocò la sua morte in un incidente automobilistico tanto fortuito quanto banale, trent’anni più tardi sarebbe diventato presidente del Torino Calcio, portandolo al fallimento nel 2005. A conferma dell’assioma che la storia si ripete sempre due volte: la prima volta come tragedia, la seconda come farsa.

La sera in cui venne investito mentre attraversava corso Re Umberto, a Torino, insieme con il compagno di squadra Fabrizio Poletti, Meroni aveva già alle spalle un curriculum di tutto rispetto, per un calciatore ancor molto giovane: 145 partite in serie A (con 29 reti), disputate con la maglia del Genoa e soprattutto del Toro; 6 partite e 2 gol in Nazionale, con la quale aveva anche partecipato agli sfortunati mondiali del ’66 in Inghilterra.

Meroni era un personaggio, prima ancora che un grande calciatore, uno che forse di lì a poco sarebbe diventato un campione di livello internazionale. Nell’ambiente chiuso e conformista del calcio di allora, Gigi attirò subito l’attenzione dei mass-media. Non sempre benevola: i capelli lunghi, la barba incolta, gli abiti stravaganti, il calzettoni abbassati e il gioco estroso e fantasioso piacevano ai tifosi ma facevano storcere il naso a parecchi critici. L’accusa più frequente era di essere un esibizionista.

“Lei è di un’altra generazione e, forse, non può capirmi. Io faccio così non per esibizionismo, ma perché sono così; perché anelo alla libertà assoluta e questi capelli, questa barba sono uno dei segni di libertà. Può darsi che un giorno cambierò quando la mia libertà sarà un’altra”, è la risposta del calciatore comasco a un giornalista che lo incalzava. I tempi erano maturi per grandi cambiamenti e il ’68 in agguato, ma l’anticonformismo di Meroni era alieno da qualsiasi velleità politica. Meroni faceva “il Meroni”  perché quella era la sua natura, non perché volesse lanciare messaggi ideologici.

Quando Gigi se ne andò, per la Torino granata fu un altro duro colpo, che diciott’anni dopo riportò la memoria alla tragedia di Superga. Più di ventimila persone parteciparono ai funerali, la città era sconvolta e fioccavano le testimonianze di solidarietà ai familiari e al club granata: nel carcere delle Nuove alcuni detenuti raccolsero  soldi per mandare una corona di fiori. Ma non tutti piansero. La Chiesa si oppose alle esequie religiose e criticò don Francesco Ferraudo, cappellano del Torino, per aver celebrato il funerale di un “peccatore pubblico”. Il quotidiano cittadino di proprietà della famiglia Agnelli si unì alle critiche dei prelati e si formò persino  un movimento d’opinione per chiedere provvedimenti disciplinari contro il sacerdote.

La stampa sportiva, che pure in vita non gli aveva risparmiato giudizi sferzanti, lo salutò commossa. Luigi Gianoli, sulle pagine della Gazzetta dello Sport: “E’ stato, pur così apparentemente truccato ed estroso, l’eroe nuovo; nuovo perché disinteressato e privo di invidia [..] Uomo laconico e intelligente, ben diverso dagli abatini o dagli impiegati standardizzati del calcio moderno”. Anche Gianni Brera, uno tra i suoi critici più feroci, gli rese l’onore delle armi: “Tu eri giovane e puro abbastanza per non dimenticarti di essere vero pure nelle stranezze”.

La domenica successiva i compagni di squadra lo salutarono con una partita rimasta nella storia: 4-0 nel derby contro la Juventus. Persino la scansione dei marcatori sembrò un omaggio divino alla “farfalla” che ormai non volava più: andò tre volte in gol l’argentino Nestor Combin, l’amico più caro di Gigi, e la quarta rete portò la firma di Alberto Carelli, il giovane che indossava la maglia numero 7 di Meroni.

A tanti anni di distanza il ricordo di Gigi è ancora vivo: gli sono stati intitolati club di tifosi, campi di calcio e persino società sportive; su di lui sono stati scritti parecchi libri (il più noto è “La farfalla granata”, di Nando Della Chiesa), una canzone (“Chi si ricorda di Gigi Meroni?” degli Yo Yo Mundi) e nel Museo del Grande Torino di Grugliasco c’è una sala a lui dedicata. Nei piani della Rai c’è anche una fiction sulla vita di Meroni: il regista dovrebbe essere Claudio Bonivento, che nel 2005 ha già diretto “Il grande Torino” con Beppe Fiorello nei panni di Valentino Mazzola. Ancora non si sa invece chi interpreterà Meroni: si parla di Luca Argentero o Giorgio Pasotti.

I tifosi granata anche oggi, come ogni 15 ottobre, saranno davanti alla lapide in corso Re Umberto per ricordare con un fiore il loro campione sfortunato.

George Best

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