Giornale di Bordo. Perché su Dante il ministro Sangiuliano ha le sue brave ragioni

Come scrisse Jacques Le Goff, il Sommo Poeta è stato “il grande reazionario che riassume in sé tutto il medioevo”

Dante Alighieri

Dante Alighieri
Dante Alighieri

Non credo si possa obiettare nulla, da un punto di vista scientifico, all’affermazione di Gennaro Sangiuliano secondo cui Dante Alighieri sarebbe uno dei pilastri della cultura di destra. Dante, come scrisse Jacques Le Goff, è stato “il grande reazionario che riassume in sé tutto il medioevo”, e se non si utilizza il termine nell’accezione negativa che ha finito per assumere, ma come definizione di persona che reagisce indignata alla crisi della società del suo tempo, il giudizio del grande medievista porta acqua al mulino del ministro. Dante appartiene alla cerchia di altri grandi reazionari che, proprio perché la criticavano, furono capaci di interpretare con la massima lucidità la società del loro tempo. Uno di loro fu, per esempio, Honoré del Balzac, monarchico e cattolico, che nella sua Commedia (Umana, non Divina) descrisse la degenerazione della società francese con l’ascesa di una borghesia gretta e avida a spese della vecchia aristocrazia; e lo fece con una lucidità che ricorda l’avversione di Dante per “la gente nova e i subiti guadagni” e la sua nostalgia per una Firenze “dentro da la cerchia antica”. Se dal volgare della Commedia si passa al latino della Monarchia, altri argomenti potrebbero essere addotti a sostegno della tesi di Sangiuliano. E non perché, come ha sostenuto Luciano Canfora, la Monarchia possa essere considerata precorritrice del cavourriano “libero Stato in libera Chiesa”, ma perché, come ha scritto Massimo Cacciari, permane in Dante “un’idea del Politico che, pur nel rivendicare la propria razionale autonomia, lotta per non perdere ogni fondamento sacrale” (e la “risacralizzazione della politica”, il suo recupero di contenuti etici, al di là di ogni dogmatico confessionalismo o angusto moralismo, dovrebbe costituire uno dei temi fondanti nel catalogo dei valori della destra).

Interessante, a questo proposito, potrebbe essere anche il giudizio del grande filologo Erich Auerbach, il quale definiva sì, Dante, “un politico medievale o reazionario”, ma insinuava il dubbio se non siamo noi moderni, con i nostri pregiudizi, a escludere unilateralmente l’idea di trascendenza.

Detto questo, è fatale che certe rivendicazioni culturali possano essere bollate come appropriazioni indebite, come ha fatto in un’intervista a “Repubblica” lo stesso Cacciari o in un acidulo intervento sulla “Tecnica della Scuola” Pasquale Almirante, parente ma non ammiratore del politico Giorgio , alla storia della cui“famiglia d’arte” ha dedicato un saggio. Oltre tutto, la rivendicazione di Dante alla destra era molto cara allo stesso Almirante, che si era laureato in Lettere con una tesi sulla fortuna (o meglio sfortuna) settecentesca dell’Alighieri e che durante un incontro a Napoli suggerì proprio a un giovanissimo Gennaro Sangiuliano la lettura del divino poeta, oltre che di Manzoni, di Pirandello e naturalmente dei classici latini (l’allora vicedirettore del Tg1 lo raccontò con orgoglio a Barbadillo nove anni fa: https://www.barbadillo.it/25423-cultura-quando-almirante-dante-manzoni-classici-latini/).

Del resto dall’Ottocento in poi, quando, dopo la disgrazia in età illuministica, l’autore della Commedia fu riscoperto nella nuova temperie romantica, Dante è stato variamente inteso e spesso frainteso. Il Foscolo dei Sepolcri vide in lui il “ghibellin fuggiasco”, ma anche nella sua opera più filo-imperiale, la Monarchia, che fu anche messa all’Indice e vi rimase fino al 1881, nonostante la teoria dei “due soli” Dante non aveva escluso che l’imperatore dovesse avere una fedeltà filiale, sia pur da figlio primogenito, al pontefice. Durante il Risorgimento e fino alla Grande Guerra, Dante fu esaltato come un vessillo di italianità contro l’impero asburgico, nonostante avesse preso posizione a favore del “buon Barbarossa” nella sua lotta contro i liberi Comuni. La tendenza ad appropriarsi del biografato ha comunque condizionato, nel corso del Novecento, molte biografie di Dante. E se Piero Bargellini, protagonista della grande stagione del “Frontespizio”, collaboratore di Bottai e poi per altro grande sindaco Dc di Firenze l’anno dell’Alluvione, finì per rappresentare nella sua vita di Dante un divino poeta un po’ democristiano, un altro scrittore toscano di alta levatura come Mario Tobino s’inventò un Alighieri a sua immagine e somiglianza, arrivando a bollare il suo rivale Corso Donati, guelfo nero, come “uno squadrista”.

Non entro poi nell’ambito delle letture esoteriche del poema dantesco, che mi affascinarono nell’adolescenza (una volta feci persino forca a scuola per leggere alla Biblioteca Nazionale di Firenze L’ésotérisme de Dante di Guénon, non ancora tradotto dalla Adelphi), perché si entrerebbe, specie per quanto riguarda i rapporti fra il poeta e i templari, in un procelloso mare magnum.

Per altro, a pensarci bene, molte scelte di Dante nel popolamento del mondo ultraterreno possono apparire contraddittorie, e in parte lo sono: la dannazione dei cesaricidi Bruto e Cassio e il salvataggio nel Purgatorio di Catone l’Uticense, morto suicida per amore di libertà, proprio come nemico di Cesare; la condanna all’Inferno di Federico II e il recupero nel Purgatorio di Manfredi (e qualcuno potrebbe insinuare che motivo di tale scelta fosse il fatto che quando Dante scriveva la seconda cantica non sperava più in un ritorno a Firenze con gli altri guelfi bianchi banditi e quindi si stava avvicinando al mondo ghibellino; ma la bellezza dei versi dedicati al figlio naturale dell’imperatore trascende ogni dietrologia).

In realtà, più che un’ideologia (parola che per fortuna nel XIV secolo non era stata ancora coniata) o peggio un ritratto da appendere nella propria pinacoteca di partito, quello che la destra può raccogliere e coltivare nell’eredità dantesca è ben altro. È un sentire, uno stato d’animo diffidente verso le degenerazioni della modernità, è la condanna, in senso lato, dell’”usura”, contro le sirene – diremmo oggi – della finanziarizzazione dell’economia, è il disprezzo per il “maladetto Fiore” (oggi potrebbe venire in mente l’Euro) e i “facili guadagni”, è il rispetto per gli avversari politici rispettabili, da Farinata a Manfredi, ma pure il sacro sdegno nei confronti di chi offende i più elementari principi di umanità, è la capacità di distinguere il peccato dal peccatore (Brunetto Latini, che pure colloca all’Inferno fra i violenti contro natura, è anche uno dei pochissimi personaggi cui si rivolge con il “voi”). È la capacità di essere laici senza essere laicisti, cattolici senza essere papisti, innamorati dell’Italia al punto da regalarle una lingua che poi è rimasta sostanzialmente immutata nei secoli e delimitandone i confini in versi tanto cari agli irredentisti istriani, ma al tempo stesso consapevoli che il suo spazio naturale è all’interno di un’Europa cristiana, come “giardino dell’Impero”. E pazienza se il giardino è un po’ inquinato,  se Ursula non è il Barbarossa, se fra Strasburgo e Bruxelles imperversa un’Unione che ha scelto di espungere dalla sua Costituzione l’eredità cristiana. L’esperienza insegna che da tempi di ferro possono nascere versi d’oro. Non necessariamente endecasillabi.

Enrico Nistri

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