Viaggi&Patrie. Dell’Orco: “Così racconto le città divise”

"Tra barricate geopolitica e fiori sull’asfalto. Il viaggio come educazione per riconnettersi al flusso primordiale della vita”

Daniele Dell’orco

Daniele Dell’Orco, scrittore e reporter, nonché editore di Idrovolante e della neonata Edizioni dell’orco e collaboratore delle testate Libero e IlGiornale.it, è da poco tornato nelle librerie con “Città divise. In viaggio dove i muri sono ancora realtà” (Idrovolante Edizioni): un reportage testuale e fotografico che percorre e indaga quelle aree del mondo lacerate da tensioni di carattere etnico e politico. Gli abbiamo chiesto di accompagnarci in questo itinerario che va da Skopje e Mitrovica, Sarajevo e Mostar, sino a Nicosia e Belfast per arrivare a Gerusalemme, Betlemme ed Hebron. Senza dimenticare altre sue trasferte come quella nel Nagorno Karabakh, poco prima che scoppiasse il secondo conflitto bellico nel 2020, e quella in Moldavia e in Transnistria, dove più di recente si è recato per analizzare la guerra in Ucraina da una finestra direttamente affacciata sulla zona della crisi.

 

Daniele Dell’Orco, come nasce l’idea di condensare un mosaico così complesso in un libro?

“Nel tempo mi sono trovato sempre più spesso a confrontarmi con determinati contesti di carattere urbano in cui separare tramite dei confini fisici due o più comunità è diventata una prassi consolidata. In occasione dei trent’anni dalla caduta del muro di Berlino poi, nel 2019, ho fatto mente locale tra le realtà che ero riuscito già a monitorare e quelle che invece avrei voluto visitare, e ho deciso quindi di completare questo percorso. Nonostante si parli di un ambito di approfondimento in continuo divenire, mi risulta che le realtà fisicamente divise da un punto di vista urbano siano le stesse che ho inserito nel libro. Lo scopo, quello di dimostrare che la condizione della capitale tedesca durante la Guerra fredda è più che mai presente e diffusa. Altro che storia”.

 

Città divise è un viaggio che da Sarajevo e Mostar, Skopje e Mitrovica, arriva sino a Belfast e Nicosia per immergersi pure nelle atmosfere di Gerusalemme, Betlemme e Hebron. Ci racconta le immagini più intense che ha raccolto durante questo itinerario?

“Sarebbero tantissime. Ci sono diverse aree di crisi nel mondo totalmente sconosciute al grande pubblico nelle quali però il contatto umano con i singoli abitanti, con le persone che a vario titolo si trovano a vivere in determinati contesti, contribuisce in modo inestimabile a trasformare la nostra percezione delle realtà sociali cui apparteniamo e anche di alcune cose che possono sembrarci accessorie o trascurabili. Come la confessione religiosa. Un fotogramma che racconto sempre volentieri, e che è anche riportato nel libro, riguarda la città di Hebron. Poco conosciuta tra le città della Palestina, si trova all’interno della Cisgiordania: quella parte della Terra Santa teoricamente affidata all’autorità palestinese ma fattivamente piuttosto controllata dallo Stato d’Israele con una presenza massiva. Soprattutto in alcune enclavi. Hebron rientra tra queste. Ed è pure la sede della grotta di Macpelà, un sito dove secondo l’Antico Testamento sarebbero sepolti i tre patriarchi: Abramo, Isacco e Giacobbe, che sono appunto i patriarchi di tutte e tre le grandi religioni monoteiste.

La situazione di scontro perenne tra i coloni israeliani e la maggioranza palestinese ha portato le autorità locali, israeliane in particolare, ad inserire all’interno della Città Vecchia vari meccanismi di controllo. Barriere di separazione, tornelli, checkpoint, muri. La già menzionata grotta di Macpelà infatti è divisa quasi esattamente in due: da una parte è adibita a moschea, dall’altra a sinagoga. Passare da un lato ad un altro dell’ambiente urbano, attraversare i checkpoint sorvegliati dall’esercito israeliano quindi, è possibile solo se si professa una confessione terza. Quella cristiana. I musulmani non possono andare nel quadrante ebraico della città e viceversa. La confessione cristiana invece, che in molti ambiti del mondo è vittima di un regime di persecuzione, di violenze, di segregazione, rappresenta in questo caso un passe-partout: l’unico se vogliamo che permette alle persone prevalentemente straniere di attraversare liberamente entrambe le aree della città. Cosa che non possono fare magari alcuni ragazzi nati e cresciuti nella stessa Hebron”.

 

Quali sono i disagi più pressanti che ha sperimentato addentrandosi in questi ambienti?

“Di sicuro la logistica. Sono aree che si raggiungono dopo varie vicissitudini. Di carattere pratico, in alcuni casi pure burocratico. Si pensi a Nicosia, la capitale di Cipro, che per essere attraversata prevede un checkpoint statale. Da un Paese infatti, la Repubblica di Cipro, si passa ad un altro che è quello della Repubblica turca di Cipro del Nord: nel bel mezzo della città si deve quindi mostrare un passaporto per poter valicare il confine tra i due Stati. Esattamente come per Berlino fino al 1989.

Oltre alla logistica, un altro ostacolo è ovviamente la comunicazione. La lingua inglese non sempre aiuta ad installare canali di contatto e di dialogo efficaci. Il fatto di confrontarsi con comunità così diverse, che parlano lingue così diverse, in alcuni casi rende davvero complicato per un occidentale riuscire a comunicare. Potremmo farne a decine di questi esempi. Ma c’è in realtà un’altra cosa di cui vorrei dire…”

 

Prego.

“Il fattore occupazionale, professionale. Per centinaia di migliaia di persone che vivono all’interno di queste città autodeterminarsi diventa un lusso. Alcune realtà del Kosovo, Mitrovica tra tutte, ma anche altre della Cisgiordania, sono abitate da persone che non hanno un passaporto riconosciuto sul piano internazionale. Lasciare questi territori per cercare realizzazione altrove è quindi difficilissimo. E questo è ciò che poi principalmente favorisce la tremenda povertà che affligge determinati contesti”.

Come viene vissuta quindi la quotidianità nelle aree che racconta nel libro?

“Dipende. Sono piuttosto diverse tra loro. Alcune delle caratteristiche principali possono essere sicuramente simili, altre però sono del tutto differenti l’una dall’altra. Il modo di vivere nelle singole città è modulato dal contesto di riferimento. C’è però una problematica tipica di queste zone, ed è quella generazionale. Ansia, paura dell’avvenire, patologie di carattere psicosomatico sono solo alcune delle difficoltà che i ragazzi nati e cresciuti in questi contesti di separazione e segregazione hanno sviluppato. Per carità, si tratta comunque di problemi che affliggono anche le giovani generazioni occidentali e che sono più in generale dettati dal mondo contemporaneo e dalle sue storture. Ma queste zone, le Città divise, hanno senza dubbio la triste capacità di amplificarli, decuplicarli. L’identità religiosa o nazionale o politica diventa così un rifugio. Col risultato che tanti di questi ragazzi si aggrappano ad un eccessivo senso di appartenenza che il più delle volte sfocia nel settarismo e nel fanatismo. La realtà che sta al di là della barricata è percepita come nemica, e non come un qualcosa con cui prima o poi si dovrebbe provare a dialogare”.

 

Da un punto di vista storico, politico, culturale, emerge un denominatore comune tra le Città divise della terra?

“Sicuramente il conflitto. E non solo locale, ma considerato anche sul piano geopolitico e internazionale. Mi riferisco a quei sommovimenti globali che tendono progressivamente a concentrarsi e quindi ad abbattersi sulla singola città, per via della sua conformazione ad esempio etnica. Tutte le guerre, compresa quella in corso in queste ore, non si limitano al territorio in cui vengono combattute e alle persone che le combattono; il problema però è che lo scotto vero, il rischio di continuare a pagare le scorie del conflitto per decine di anni, non tocca i protagonisti della scena internazionale: a farne le spese sono le popolazioni civili che abitano quei territori. Una peculiarità comune alle Città divise è questa. Si tratta di realtà vittime del loro passato. Sono rimaste intrappolate nella propria storia”.

 

Le Città divise come metodo di analisi delle sfide geopolitiche che agitano oggi lo scacchiere internazionale?

“Assolutamente. È il motivo per cui ho cercato di monitorarle. Tramite questa pubblicazione vorrei cercare di tenere il più possibile alta l’attenzione su queste realtà, per tentare di scorgere il ritratto di quelle regioni del mondo la cui storia non è affatto conclusa e che potrebbero di conseguenza tornare ad essere di estrema e tremenda attualità. Il Donbass ne è un esempio. Parliamo di avvisaglie che non devono lasciarci indifferenti, di fenomeni che devono essere accuratamente sorvegliati. Non c’è momento migliore di questo per considerare e valutare lo stato di certe realtà”.

 

Il rischio è che, sottovalutando o ignorando le tensioni più o meno latenti che tormentano queste aree del mondo, deflagrino scontri di proporzioni più vaste?

“È una certezza. Ed è per questo che sostengo che determinate zone debbano essere esaminate periodicamente. Tra l’altro, parliamo di territori fatali geograficamente, vicini al confine con l’Unione europea. La loro situazione ci coinvolge direttamente. Oggi in modo un po’ più soft. Nel prossimo futuro, chissà”.

 

Qual è il lascito delle esperienze vissute tra le Città divise?

“La sensazione che vorrei potesse essere trasmessa tramite questo libro è il senso del paradosso, dell’ingiustizia, il senso del distacco con la realtà che vivono centinaia di migliaia di individui ogni giorno. Sono persone intrappolate in una sorta di lockdown perpetuo. La loro quotidianità è soffocata da restrizioni, barriere, limiti alla possibilità di spostamento e al contatto umano. Un qualcosa di difficilmente immaginabile per la narrazione e la retorica cui siamo abituati”.

 

Lei ha visitato e raccontato anche altri teatri difficili. Come il Nagorno Karabakh, che ha perlustrato pochi mesi prima che scoppiasse la seconda guerra nel 2020…

“Quando sono stato in Nagorno Karabakh, le avvisaglie dello scontro armato c’erano già tutte. Un conflitto che non era mai terminato, durato per quasi trent’anni dalla prima guerra del 1992 al 2020. E, al di là dei confini territoriali, che sono stati rimodulati, ancora oggi la situazione non accenna a cambiare davvero. Sembra di rivivere lo scenario anteriore al settembre del 2020, tra scontri quotidiani a bassa intensità, sconfinamenti vari, violazioni del cessate il fuoco. Tutti aspetti sintomatici di un vero e proprio regime di guerra perenne.

È uno scontro bellico che non ha interessato il grande pubblico. I suoi equilibri però si inseriscono appieno in un contesto di sommovimenti geopolitici che ci riguardano e che potrebbero causare un coinvolgimento più o meno diretto della nostra realtà. Il problema è che, soprattutto in Italia, a differenza di ciò che avviene all’estero e in altri Paesi occidentali, si parla tanto e solamente di un conflitto quando è mediaticamente rilevante, come quello in Ucraina in corso in questo momento, e non si parla più di alcun tipo di implicazione geopolitica quando poi il conflitto perde di appeal mediatico o finisce. La politica internazionale è un fatto di concatenazioni e complicazioni progressive, il che richiede uno sguardo bilanciato e continuativo sui vari fenomeni che caratterizzano lo scacchiere globale. Proprio la guerra nel Nagorno Karabakh lo dimostra, dato che alcuni degli attori che si sono contesi la scena in quel periodo sono gli stessi che abbiamo ritrovato anche se in veste differente nella crisi ucraina”.

 

A proposito di Ucraina, più recentemente è stato in Moldavia e in Transnistria, per scrutare l’evolversi della guerra da una finestra direttamente affacciata sulla zona della crisi.

“La Transnistria rientra senza alcun dubbio nel novero delle realtà dimenticate del mondo, nonostante si trovi nei dintorni di casa nostra. La mia sensazione è che questa regione sia, come il Nagorno Karabakh, come lo era lo stesso Donbass fino a pochi mesi fa, una di quelle zone su cui si favoleggia tantissimo. Non andare in questi posti e quindi non parlarne offre un assist clamoroso ai media mainstream, che in assenza di contradditorio hanno la possibilità di fantasticare il più possibile quando certe atmosfere diventano di strettissima attualità.

La Transnistria è stata il bersaglio di tantissime leggende nell’ambito degli equilibri della crisi ucraina. Quando sono tornato dalla Transnistria ho provato più volte infatti a portare una testimonianza diretta della mia esperienza che sovente non ha coinciso con la narrazione comune. In quelle settimane la stampa di mezzo mondo scriveva che dalla Transnistria stessero per partire carrarmati russi alla volta di Odessa. Balle. Non stava succedendo assolutamente nulla. Si tratta di una realtà completamente fuori dai canoni contemporanei, e soprattutto estranea alle dinamiche che hanno portato Ucraina e Russia a confliggere direttamente. Dopodiché quello che succederà lì non possiamo saperlo. Ciò che è certo è che fino ad adesso, in questi quattro mesi dall’inizio della guerra in Ucraina, in Transnistria non si è sparato nemmeno un colpo per aria”.

 

Qual è la traiettoria da seguire per provare a risolvere le tensioni interetniche e politiche che lacerano determinati contesti territoriali?

“Sono piuttosto pessimista. Ho paura che certe situazioni possano essere addirittura artefatte. Per convenienza. Di sicuro non c’è l’interesse a volerle risolvere. L’abbiamo visto con ciò che è successo il 24 febbraio. Non c’era la volontà di appianare la questione del Donbass e della Crimea, dal punto di vista politico o diplomatico. Bisognerebbe quindi capire innanzitutto se c’è un’effettiva intenzione di risolvere alcuni di questi conflitti, e in seguito provare a delineare una strategia.

Chi ha la possibilità di recitare un ruolo terzo, come l’Italia e l’Unione europea, come gli Stati Uniti talvolta, dovrebbe avere la sensibilità di comprendere che il dialogo è l’unico mezzo per poter provare a migliorare la vita di centinaia di migliaia di persone. L’errore è credere che normalizzare i muri e le divisioni possa essere considerata una soluzione in fin dei conti accettabile nell’ottica di evitare spargimenti di sangue o scontri diretti. Significa in realtà procrastinare problemi che ci sono e ci saranno”.

 

Un’ultima domanda. Che accezione simbolica, spirituale anche, assume per lei il “viaggio”?

“La possibilità di non perdere il contatto con la realtà. Dove esistono le sofferenze, le violenze, la minaccia continua e costante alla vita. La negazione del concetto di felicità per come abbiamo imparato a concepirla. È bello però scorgere quegli avamposti in cui le persone, malgrado tutto, malgrado contesti come quelli che racconto nel libro, riescono a creare con una forza d’animo a molti sconosciuta il proprio benessere e la propria felicità. Come fiori che crescono sull’asfalto. Lo fanno abbracciando l’immateriale, l’inumano, i valori tradizionali, dalla famiglia all’appartenenza religiosa sino all’identità e agli ideali di riferimento. Un qualcosa di primordiale che molti di noi hanno smarrito.

Viaggiare significa uscire dalla propria bolla, dalla propria comfort zone, per rendersi conto del fatto che troppo spesso consideriamo indispensabili aspetti della vita che invece sono totalmente accessori”.

 

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