Giornale di Bordo. La morte (bianca) di Luana D’Orazio ci ricorda che la vita non è soltanto software e like

Il problema è che oggi in Italia il lavoro – manuale, ma anche intellettuale – è pagato troppo poco e nelle fabbriche gli standard di sicurezza non sempre vengono rispettati

Il caso della morte bianca di Luana D’Orazio

Sulla tragica morte di Luana D’Orazio, scomparsa il 3 maggio scorso in un incidente sul lavoro a Montemurlo, risucchiata dagli ingranaggi di una macchina tessile, è stato già scritto molto, a volte troppo. Il cordoglio e la simpatia per una ragazza madre di 22 anni, che, pur desiderando fare cinema lavorava in fabbrica per mantenere il figlio avuto a diciassette anni, hanno avuto il merito di portare all’attenzione dell’opinione pubblica il doloroso stillicidio delle morti sul lavoro; ma c’è chi non ha perso l’occasione per fare della sciocca polemica a sfondo razzista, lamentando che lo stesso trattamento non sarebbe stato riservato a vittime del lavoro di altra nazionalità e di minore avvenenza. Possibile che al giorno d’oggi occorra chiedere il permesso anche per piangere la morte di una ragazza morta sul lavoro solo perché era italiana e non rumena, era carina e aveva fatto la comparsa in un film di Pieraccioni?

In realtà, a quasi una settimana dalla tragedia, la morte di Luana ha il merito di indurci a riflettere su alcune scomode e ben più serie verità.

In primo luogo, una dolorosa fatalità ha voluto che la tragedia cadesse proprio mentre non si erano spente le polemiche legate alla presunta tentata censura nei confronti di un rapper milionario, che ha scambiato il palco del Concerto del Primo Maggio con l’angolo degli oratori di Hyde Park. Con crudele tempestività, la sorte ci ha ricordato che compito dei sindacati dovrebbe essere, più che occuparsi di omo o trans-fobia, garantire la dignità e le condizioni di sicurezza dei lavoratori. E questo non facendo sciopero dopo che è avvenuta una tragedia . esercizio ritualistico e autolesionistico, ma avvalendosi di tutti gli strumenti disponibili nell’opera di prevenzione. Ci si iscrive a un sindacato non per farsi insegnare che differenza c’è fra l’uomo e la donna, ma per vedere tutelati i propri diritti sul lavoro, primo fra tutti quello alla vita.

In secondo luogo, la tragedia di Montemurlo ci ha confermato quanto sia falsa l’affermazione secondo cuil’immigrazione sarebbe necessaria perché gli italiani non vogliono svolgere i lavori considerati più faticosi e sgradevoli. Certo, è molto diffuso il caso di giovani che preferiscono lucrare un reddito di cittadinanza, arrangiandosi magari con qualche lavoretto al nero, piuttosto che accettare un lavoro manuale pesante e, purtroppo, anche soggetto a incidenti. E in molti settori, soprattutto nella pastorizia e nell’agricoltura, gli immigrati colmano vuoti legati a carenza di manodopera locale. Alle origini di tutto questo sono convinto che ci sia una deleteria politica di scolarizzazione di massa, che ha portato non all’aumento del livello culturale (ci sono più errori di ortografia nei temi dei liceali di oggi che in quelli dei diplomati di quinta elementare di mezzo secolo fa), ma delle aspettative e magari delle pretese. Effetti rovinosi hanno avuto anche la demonizzazione dell’apprendistato, l’obbligo di frequenza scolastica fino a sedici anni (e c’è chi vorrebbe portarlo a diciotto), la licealizzazione degli istituti professionali, che un tempo sfornavano in tre anni artigiani rifiniti od operai specializzati: quelle figure di lavoratori delle quali si avverte oggi la mancanza.

Nonostante questi errori della politica, sono moltissimi gli italiani, giovani e meno giovani, che si mettono in gioco e per dignità personale invece di piatire sussidi accettano di lavorare in ambienti spesso pericolosi. Il problema è che oggi in Italia il lavoro – manuale, ma anche intellettuale – è pagato troppo poco e nelle fabbriche gli standard di sicurezza non sempre vengono rispettati. Il risultato è che per qualche centinaio di euro di differenza lavorare non conviene; è meglio scegliere la professione di disoccupato. Aumentare i salari minimi e revocare il reddito di cittadinanza o la cassa integrazione a chi non accetta il lavoro proposto, accrescendo al tempo stesso i controlli sulla sicurezza, potrebbe essere un modo per interrompere il circolo vizioso che ci ha spinto a importare lavoratori stranieri, con tutti gli oneri sociali e le problematiche socio-culturali che questo comporta, e al tempo stesso mantenere eserciti di nullafacenti che magari, Covid permettendo, vanno ad alimentare la malamovida nei centri storici.

Naturalmente, la scomparsa di Luana ha riproposto anche e soprattutto un tema di fondamentale importanza, ma a lungo rimosso: la sicurezza, e in molti casi l’insicurezza, nei cantieri e nelle fabbriche. Chi pensava che la produzione potesse venire quasi totalmente dematerializzata, che il lavoro manuale fosse destinato a sparire, che il software avrebbe presto avuto la meglio sull’hardware e le produzioni inquinanti e pericolose potessero essere impunemente delocalizzate, ha ricevuto un’atroce smentita. Il virtuale non avrà mai del tutto la meglio sul reale e ci sarà sempre bisogno di chi, col proprio sacrificio e il proprio sudore, rechi un contributo indispensabile al benessere collettivo. Non tutto potrà essere realizzato con una stampante 3D, da una postazione internet. E proprio per questo i problemi della sicurezza non possono passare in secondo piano.

Ma da dove hanno origine questi problemi? C’è chi sostiene dal fatto che i giovani operai non hanno più alle spalle una cultura del lavoro tramandata dai genitori e non hanno ricevuto un’adeguata formazione. C’è del vero in tutto questo, ma è onesto riconoscere che in incidenti mortali incappano anche operai provvisti di una decennale esperienza, perché può capitare a tutti il momento di distrazione, di stanchezza, per tacere di quella sensazione di onnipotenza che ci coglie quando ripetiamo da tempo un’azione scorretta convinti che non abbia conseguenze, perché tanto “si è sempre fatto così”. Rispetto delle pause, affiancamento di personale esperto ai giovani apprendisti come era Luana, diffide ed eventuali sanzioni per chi non rispetta le norme di sicurezza, visite a sorpresa degli ispettori del lavoro dovrebbero essere moneta corrente nelle fabbriche. Purtroppo, non è così. Certo, la cultura della sicurezza non è stata mai di casa in Italia. Se si considera che la Tour Eiffel è stata realizzata, in condizioni proibitive, senza nemmeno un incidente mortale quando nei cantieri italiani era considerato normale che un operaio si sfracellasse cadendo dalle impalcature e che già negli anni Settanta del secolo scorso l’utilizzo del casco era un fatto normale nei cantieri edili francesi, mentre da noi è stato snobbato fino a pochi decenni fa, il confronto con i “cugini d’Oltralpe” risulta impietoso.

Non vorrei però che queste considerazioni venissero lette in chiave classista. In una realtà imprenditoriale come quella in cui è maturata la tragedia di Luana, caratterizzata da un dinamico tessuto di microimprese, una contrapposizione manichea fra dipendenti e datori di lavoro è impossibile: sono gli stessi “padroni” a pagare lo scotto di forme di autosfruttamento dettate dall’esigenza di fronteggiare una concorrenza spietata; anche fra loro le morti sul lavoro non mancano. Nella fabbrica in cui la famigerata “orditrice” ha fatto scempio del corpo della ragazza, la titolare lavorava fianco a fianco degli operai, condividendone i rischi. Certo, aveva più esperienza di Luana, ma l’esperienza insegna che il pericolo è sempre in agguato. Sulla vicenda, certo, farà il suo corso la giustizia; ma viene da chiedersi perché alcuni dispositivi di sicurezza fossero stati rimossi.

E qui emergono almeno due interrogativi chiave per comprendere le origini della tragedia. Il primo ci induce a domandarci se un modello di sviluppo fondato sulla piccola azienda come quello che caratterizza molti distretti industriali toscani (e non solo) sia alla lunga adatto ad affrontare le sfide mondiali. Purtroppo, oggi, non sempre “piccolo è bello”, come recitava uno slogan in auge nei primi anni ‘70, riecheggiante il fortunato saggio dell’economista e pensatore tedesco Ernst F. Schumacher. Negli anni Settanta e nei primi anni Ottanta la frammentazione delle industrie, in tempi di pansindacalismo, ha consentito a molte piccole imprese di sopravvivere agli eccessi dello Statuto dei lavoratori e alle incursioni dei “pretori d’assalto”, ma in molti casi ha scoraggiato l’innovazione, ridotto l’assunzione di laureati (in un’azienda a conduzione familiare il dirigente sarà comunque il proprietario, anche se col solo diploma di terza media), indotto a risparmiare sulla formazione, impedito le economie di scala. Poteva andare bene mezzo secolo fa, ma nell’era della globalizzazione le ridotte dimensioni delle imprese rischiano di rivelarsi una zavorra.

Già, la globalizzazione. È anche questa una chiave per comprendere i motivi che possono indurre ad accantonare le preoccupazioni per la sicurezza al punto da rimuovere dispositivi salvavita perché rallentano il processo produttivo, con rischi mortali per gli stessi imprenditori. E a questo punto sarebbe ipocrita minimizzare il drammatico impatto che la concorrenza estera, e in particolare cinese, esercita da almeno un ventennio su molte attività produttive italiane. Quando, come nel settore del tessile, bisogna competere con imprese straniere che esercitano il dumping sociale, visti i modesti salari pagati, e anche ecologico, datoche la Cina non si pone problemi d’inquinamento, è fatale per chi deve comunque mettere sul mercato merci concorrenziali la tentazione di allentare i controlli sulla sicurezza e di risparmiare gli investimenti sulla formazione, ridotti talora a mero adempimento burocratico. Errore grave, perché, come s’impara nella vita militare, una “sicura” non basta, e a volte anche due sono poche, specie se si opera in condizioni di stress.

La tragedia di Luana, una ragazza che a diciassette anni aveva scelto di tenersi il figlio invece di abortire e che per mantenerlo aveva scelto di lavorare in fabbrica invece di piatire redditi di cittadinanza, ci ha indotto a riflettere su tutto questo. Purtroppo.

Enrico Nistri

Enrico Nistri su Barbadillo.it

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