Come per molti scritti di Giano Accame, colpisce de Il fascismo immenso rosso, l’attualità delle argomentazioni e tesi.
Forse in realtà è perché, pur ripetute per decenni e validamente sostenute, tanto da essere condivise da molti e trasversalmente agli schieramenti preconcetti, si tratta di tesi che non hanno mai fatto breccia nel muro della cultura dominante e nei circoli di quelli che contano. Il che paradossalmente le rende non usurate e sempre innovative.
Il rosso
L’accostamento del fascismo al colore rosso – che si dà per scontato sia esclusivo valore cromatico della «parte avversa» – e persino la caratteristica di «immensità», che non può che urtare chi ama descrivere il fascismo come una dottrina di minoranze che schiacciano le moltitudini, può sembrare una provocazione lessicale o un ossimoro per forzare una uscita dagli schemi precostituiti.
Pochi sanno in realtà che si tratta di una citazione di Robert Brasillach e Accame la fa propria malgrado ricordi, con non celato fastidio, che lo scrittore francese aveva dipinto tale immagine commentando lo spettacolo delle prime manifestazioni nazionalsocialiste di cui era stato testimone in un viaggio in Germania.
Corre l’obbligo di ricordare quanto Giano Accame fosse radicalmente insofferente nei confronti dell’antisemitismo e non mancasse di citare anche le considerazioni politicamente critiche sull’hitlerismo dello stesso Brasillach, che pur era stato conquistato dal lato estetico del movimento.
Ad Accame piaceva l’immagine così pittorica, futurista e grandiosa del «fascismo immenso e rosso», che volle utilizzare per dare visività alla propria ricerca scientifica sulle origini socialiste del fascismo. Tali radici vengono oggi date per scontate in ambito storico e, appunto, scientifico, pur essendo ancora oscurate per motivi di strumentalità politica da chi ha il controllo dei mezzi di informazione di massa.
Tra fascismo di sinistra e la più antica destra sociale
I massimi storici contemporanei del fascismo, da De Felice a Zeev Sternhell, hanno scritto opere definitive sulle radici «di sinistra» dei movimenti fascisti e anche per i divulgatori più dediti alle semplificazioni la definizione «fascista di sinistra» è diventata di uso corrente.
Molte testate utilizzarono questa etichetta per definire lo stesso Giano Accame, celebrandone il suo indiscusso peso nella cultura italiana attuale, in occasione della morte.
Questo gusto per gli ossimori e per le sintesi dei contrari, gli veniva attribuito anche nell’utilizzo della definizione Destra sociale, perché alla maggior parte dei cronisti appariva scontato che l’attenzione per il sociale fosse appannaggio esclusivo della sinistra, mentre la destra doveva giocoforza svolgere il ruolo di forza antipopolare e elitaria. Il che, oggi che la vulgata giornalistica forza una infondata identificazione tra fascismi e populismi, potrebbe far sorridere.
Accame buttava lì, quasi per scherzo, che causalmente l’unica forza politica dichiaratamente a destra (anche se non necessariamente di destra) nell’Italia repubblicana si chiamasse «movimento sociale» e che «sociale» si definiva anche la Repubblica di Mussolini. Ma se qualcuno si mostrava disponibile all’ascolto ci teneva anche a ricordare che la «categoria» della Destra sociale non l’aveva inventata lui, ma era nata ben prima del fascismo, come argine dottrinario contemporaneo al dilagare del marxismo, e aveva avuto come suoi interpreti persino un Benjamin Disraeli e un Otto von Bismarck.
La presente opera, edita per la prima volta nel 1990, oltre che ritracciare un percorso storico, ripropone quel modello di socialismo patriottico che è stato il filo conduttore della teorizzazione politica di Accame sin dagli anni Cinquanta.
Accame, «repubblichino» per un giorno, aveva aderito al Movimento sociale italiano pressoché dalla sua fondazione, motivato anche dal dovere di appartenenza e di testimonianza, come per migliaia di suoi coetanei. Ma la dimensione statica o nostalgica del neofascismo non faceva per lui. Finita la guerra, ribadita la fedeltà alla propria storia e il diritto dei vinti, bisognava – per «essere utili alla Patria» – rimboccarsi le mani per dare vita ad «un’Italia meno lacerata, meno nevrotica, più tollerante, più capace di comprendere se stessa e le parti che la compongono». Un’Italia libera di archiviare la guerra civile, affratellata dalla «visione degli italiani uniti ed affrancati da sudditanze straniere». Una visione che inevitabilmente cozzava con gli interessi di chi svolgeva in politica il ruolo di rappresentante di una parte e aveva bisogno, per legittimarsi, di marcare la propria irriducibile distanza dalle altre parti, una necessità di sopravvivenza per i protagonisti del gioco della democrazia partitica.
La sua visione olistica della nazione lo portò a sostenere e ribadire per tutta la vita che ciò di cui l’Italia aveva veramente bisogno erano «una destra sociale e una sinistra nazionale», non per amore di sincretismo, ma piuttosto di sintesi alta di valori e su tutti questi dell’interesse nazionale, che è la somma e la sublimazione di tutti gli interessi individuali dei cittadini. Quindi è necessario che chiunque governi presti una attenzione primaria alla tutela dei meno garantiti e si doti di tutti gli strumenti necessari per garantire a tutti i cittadini prosperità, concordia e sicurezza. E ovviamente anche la forza necessaria a far valere l’interesse dell’Italia nei confronti delle altre nazioni. Come i pensatori politici romani e rinascimentali, ribadiva che nessun individuo può considerarsi veramente libero se non è cittadino di una nazione libera dal condizionamento di altri poteri e altre nazioni. E aggiungeva che nessuno è veramente libero se asservito alla schiavitù del bisogno. Quindi è necessario garantire ad ognuno la libertà dal bisogno in una nazione libera dal condizionamento di poteri esterni alla nazione. E questa è la Destra sociale, ovvero la Sinistra nazionale. In sintesi: il socialismo patriottico. La medesima vetta raggiunta da due provenienze casualmente opposte.
Per realizzare questa ritrovata unione, Giano non si rivolgeva certo solo al mondo – pur variegato e plurale – delle destre, ma credeva sinceramente di poter trovare interlocutori dalle sane radici nell’altrettanto allargata famiglia socialista. Con un occhio rivolto al riformismo socialista scrisse nel 1983 Socialismo tricolore. Un fascismo immenso e rosso, è un’opera che si inserisce coerentemente tra Socialismo tricolore e la Destra sociale, che pubblicò nel 1996.
Interlocuzioni trasversali
Non disperava nemmeno di poter avere interlocuzioni con comunisti che non fossero accecati dall’odio antifascista. Esistevano precedenti storici importanti di apertura di dialogo addirittura da parte di Palmiro Togliatti. E persino una momentanea seppur circoscritta intesa politica quando, nel 1958, il Msi e i socialcomunisti sostennero in Sicilia la presidenza alla Regione di Silvio Milazzo, spezzando l’egemonia democristiana.
I comunisti, più di chiunque altro, avevano nel loro dna la tendenza a eliminare più i concorrenti che i veri nemici. Non avevano ucciso solo decine di migliaia di fascisti o presunti tali, non arretrando nemmeno dinanzi alla complicità con gli slavi impegnati nella pulizia etnica contro gli italiani, ma nella loro storia ancora breve avevano sterminato anarchici e socialisti, deviazionisti di varia denominazione e si erano epurati a vicenda in purghe alternate. Durante la Guerra civile spagnola avevano assassinato più trotzkisti che franchisti e in Italia erano molti i comunisti che lucidamente temevano che i neofascisti potessero ancora insediargli il monopolio della rappresentanza delle istanze sociali. Ma a pochi anni dalla amnistia Togliatti, l’odio antifascista non sembrava più prioritario per i comunisti italiani, che anzi traevano beneficio dall’esistenza di un contraltare poco ingombrante sul lato opposto dell’emiciclo, che li faceva sentire protetti da eventuali tentazioni di escluderli dal mondo costituzionale.
Il Pci, d’altronde, sostenne solo con riserva e dopo ampio dibattito nelle commissioni la proposta di legge per rendere «permanente» la norma transitoria della Costituzione che vietava la ricostituzione del Pnf, promossa dal democristiano Mario Scelba, che da ministro degli interni aveva duramente represso manifestazioni comuniste e scioperi.
La proposta originaria era infatti molto più ampia e volta a colpire le «ali estreme», partendo da quelle che si rendevano colpevoli di «sabotaggio economico». Fu De Gasperi ad arginare il disegno della destra democristiana di imporre per legge un Regime liberale che mettesse l’Italia al sicuro da derive socialcomuniste, facendo notare che, in considerazione della forza paramilitare del Pc, era imprudente provocare uno scontro frontale con il partito filosovietico.
L’iniziativa legislativa contro le opinioni antisistema si sarebbe accompagnata ad una nuova legge elettorale, sempre firmata da Scelba, che introduceva un premio di maggioranza al partito che superasse il 50 per cento dei voti, col fine di blindare il potere democristiano sull’Italia.
Dal pacchetto, alla fine dello scontro parlamentare, fu esclusa la norma volta a vietare la presentazione alle elezioni o l’esistenza di partiti politici antiliberali. «La normativa sull’apologia del fascismo fu l’eccezione che confermava la regola: ciò sia perché si riferiva all’esaltazione di un periodo storico passato, più che alle attività di un partito post-fascista già in essere, sia perché ricevette un’applicazione tale da non mettere mai in dubbio la legittimità del Msi» (nota. Wikipedia) con il quale d’altronde la Dc intratteneva già alleanze elettorali territoriali.
La seconda parte della «legge Scelba», quella che introduceva il premio di maggioranza, passò ribattezzata «legge truffa» dalla stampa comunista, ma alla fine il progetto democristiano fallì perché il partito «pigliatutto» non raggiunse i numeri necessari alle elezioni del 3 giugno del 1953 e la legge venne abrogata l’anno successivo.
Malgrado il ritorno postumo e strumentale dell’antifascismo – che servì poi come collante al consociativismo Dc-Pc – anche nel periodo in cui si sosteneva che «uccidere un fascista non fosse un reato», Accame riuscì a più riprese e in fasi diverse a trovare interlocutori onesti e sinceri di tutte le appartenenze politiche. Alcuni magari lo avvicinavano all’inizio per pura curiosità nei confronti di un autore sempre fuori dagli schemi banali, ma alla fine non potevano non trovarsi vicini ai suoi ragionamenti e riconoscergli non solo una esemplare onestà e indipendenza intellettuale, ma anche una oggettiva capacità di proposta.
Questo lo portava a coltivare una certa dose di ottimismo e a credere che, prima o poi, le persone di buon senso e di buona volontà avrebbero abbattuto definitivamente gli steccati per costruire insieme un domani migliore, nel solco del motto mazziniano che aveva fatto proprio: «muoia la fazione perché viva la nazione».
Una speranza che non lo abbandonò nemmeno sul letto di morte.
*Un fascismo immenso e rosso di Giano Accame, Centro Librario Occidente, euro 20
Il volume è ordinabile scrivendo a: francescociulla@hotmail.com
La sinistra nel fascismo regime non ha mai contato nulla, come riconosce Parlato. Il resto è, quindi, solo immaginazione. E lì rimanga, perchè il fascismo di sinistra (tipo peronismo) fa solo danni…
Ottimo articolo che casca proprio a fagiolo nel dibattito di oggi sul sito, mi sono permesso anch’io di citare proprio Accame in alcuni passaggi quindi non posso che consigliare la lettura di questo importante testo, che magari si può anche non condividere per nulla, ma va letto anche solo come indagine e messa in discussione di alcuni parametri consolidati,per confutarli o magari respingerli, ed oggi a posteriori può risultare anche più attuale da alcuni punti di vista e lo dico da persona anche critica di alcuni aspetti del pensiero di Accame…