Giornale di Bordo. La sanatoria della Bellanova e la centralità (dimenticata) dell’agricoltura

Non regolarizzazioni di stranieri, ma indirizzo nei campi per disoccupati e percettori di reddito di cittadinanza

Teresa Bellanova

La sanatoria oltre la demagogia

Con la sua faccia paciosa da massaia rurale rimpannucciata per la presunta vincita d’un terno al lotto, la ministra Bellanova ha scatenato un dibattito che rischia di mettere in crisi l’odierna maggioranza, o forse no. Non ci vuole molto per capire che sulla sanatoria per gli extracomunitari ritenuti indispensabili al raccolto i partiti della maggioranza troveranno prima o poi un accordo: l’istinto della conservazione del potere è più forte delle preoccupazioni ideologiche. A premere in tale direzione contribuirà anche l’Inps, sempre interessato alla prospettiva di ricevere contributi previdenziali freschi, senza considerare che, fra ricongiungimenti familiari ed erogazioni future, i soldi intascati a breve termine saranno ripagati a tassi usurai.

Quanto ai partiti dell’opposizione, è prevedibile che cercheranno di trarre il più possibile vantaggio dall’allarme suscitato dalla paventata legalizzazione, sia pure in ordine sparso. Mara Carfagna, per esempio, ha perorato una sanatoria per i lavoratori domestici. La motivazione è l’esigenza di fare emergere il sommerso; il guaio è che, come tutti i condoni, una prassi di questo genere finisce per incoraggiare per il futuro un ulteriore ricorso al lavoro nero. Ma, si sa, come ogni anticlericale ha il suo prete e il suo antisemita ha il suo ebreo, ogni signora bene che vota a destra ha la sua colf da mettere in regola.

Al di là del teatrino della politica, però, in un paese serio la proposta Bellanova dovrebbe fare emergere un dibattito serio sui problemi da un lato della nostra agricoltura, dall’altro del nostro mercato del lavoro. Fino agli anni ’90 l’agricoltura italiana ha potuto sopravvivere e in certi casi prosperare grazie ai contributi dell’Unione Europea, che rendevano redditizie colture altrimenti fuori mercato e in certi casi, con il cosiddetto set-aside, permettevano con un apprezzabile indennizzo di mantenere a riposo terreni destinati alla coltivazione di cereali: una sorta di cassa integrazione del suolo. Tali contributi si sono estremamente ridotti, mentre si sono aperte le frontiere a prodotti di paesi esterni all’Ue, come la Tunisia, col risultato, per esempio, che la produzione di olio d’oliva è sempre meno conveniente. L’abolizione dei voucher, operazione tutta ideologica che impedisce a parenti dei proprietari, studenti, disoccupati di dare una mano durante la raccolta, ha fatto il resto.

Si è verificato così un tipico compromesso italiano, col ricorso allo sfruttamento di una manodopera immigrata a basso costo, che ha permesso di far quadrare i conti delle aziende agricole ed è stato di fatto tollerato dalle autorità. Questo paradosso ha consentito a molte colture di non finire fuori mercato, evitando che il mercato nazionale fosse invaso da derrate alimentari estere, magari prodotte con tecniche inquinanti, ma ha provocato due conseguenze rovinose: un ulteriore allontanamento degli italiani dal lavoro agricolo meno qualificato e la nascita di baraccopoli di immigrati che, considerazioni umanitarie a parte, costituiscono una mina sociale e oggi anche batteriologica.

Il cosiddetto lockdown, bloccando l’ingresso in Italia di immigrati proprio all’approssimarsi della stagione dei raccolti, ha fatto emergere tutte le contraddizioni di un compromesso ipocrita ma indispensabile alla persistenza di una società da basso impero che poteva permettersi di distribuire frumentationes ai cives grazie allo sfruttamento di una manodopera senza diritti.

Ora l’Italia deve fare una scelta: o continuare ad attrarre nuovi flussi migratori su un territorio già saturo, povero di risorse, con caratteristiche orografiche che non favoriscono la meccanizzazione dell’agricoltura e con una densità demografica di 200 abitanti per chilometro quadrato, contro i 120 della Francia, i 92 della Spagna, i 36 degli Stati Uniti; oppure fare di necessità virtù, indirizzando ai lavori dei campi, pena la sospensione dei sussidi, cassintegrati e percettori di redditi di cittadinanza.

Ma saranno, la sinistra e anche la destra, capaci di optare per la seconda ipotesi? Per ora, sia pure con toni diversi, tutti i partiti sono inclini più a chiedere sussidi per chi ha perso il posto che a incoraggiare il trasferimento di manodopera da un settore all’altro. E dire che, secondo “la Costituzione più bella del mondo”, l’Italia sarebbe una Repubblica democratica fondata sul lavoro.

Enrico Nistri

Enrico Nistri su Barbadillo.it

Exit mobile version