Teatro Greco. Siracusa, solo sprazzi di Aristofane nella “Lisistrata” di Tullio Solenghi

Il palco di Lisistrata

Lisistrata interpretata da Elisabetta Pozzi, foto di Maria Pia Ballarino

Il dettaglio del diavolo, che del comico è artefice, si annida stavolta nel calembour di suoni tra il facile e il felice. In mezzo sta la commedia che ha debuttato ieri sera al Teatro Greco di Siracusa, ultimo atto della 55esima Stagione delle Rappresentazioni Classiche.

 

La commedia è “Lisistrata” di Aristofane, ma Aristofane si vede poco. Ogni tanto si affaccia tra una gag e l’altra, gettando  sulla scena frammenti di quel potente pensiero che ha fatto di “Lisistrata” uno dei testi più importanti della sua produzione. “Lisistrata” è una felice mistura di etica al femminile, di difesa della democrazia, di antibellicismo, offerti alla metafora del sesso nell’esplicitazione dei gesti e della lingua. Per citare Luciano Canfora, la commedia è “una danza panellenica della pace”. Fu rappresentata nel 411 a. C., in un momento particolarmente convulso del dibattito tra oligarchia, democrazia e tirannide apertosi dopo la sconfitta in Sicilia. Aristofane consegna all’ateniese Lisistrata, colei che scioglie gli eserciti, il compito di imporre la pace a una Grecia divisa dalle armi e dal denaro degli uomini.

Al centro Lisistrata (Elisabetta Pozzi) con le donne e il coro delle vecchie

La conquista dell’Acropoli affidata alle anziane costituisce il centro nevralgico della lotta ingaggiata da Lisistrata: le donne salgono nella parte alta della città, s’impadroniscono del vertice del potere dove sono custoditi il denaro per finanziare le guerre e la legna per costruire le navi. Alle giovani donne, convocate dalla Corinzia, dalla Beozia e da Sparta, Lisistrata affida il compito più difficile: volgere l’istinto bellico in istinto erotico, togliere all’uomo il sesso per costringerlo alla pace. Lo sciopero del sesso diventa per Aristofane il meccanismo comico e l’alcova dell’ideologia. Un’utopia rivoluzionaria di straordinaria genialità affida alle donne un ruolo ancora oggi lontano dal conquistare e inconcepibile nel tempo della scrittura della commedia. Aristofane s’intesta il rovesciamento comico forte della sua duttilità linguistica e  nello straniamento del comico denuncia (o svela?) un progetto politico. E’ ozioso ribadire la difficoltà di realizzare il comico, di decodificarlo, di tradurre le allusioni e le citazioni di fatti e personaggi di cui la commedia greca è ricca. Per una sfida tanto allettante e alta non bastano erezioni mal conciate e un profluvio del verbo “scopare”, variamente coniugato, a restituire l’eccezionale istinto comico aristofanesco.

Tullio Solenghi (Cinesia) e Giuliano Chiarello (araldo spartano)

La lettura di Tullio Solenghi, regista e interprete perfetto di Cinesia, è spiazzante. Sospeso nel limbo tra riflessione e risata, Solenghi trasferisce sulla scena la tradizione televisiva (gli show del sabato sera e i programmi di cabaret della tv generalista), del cinema (la commedia sexy italiana degli anni ’80 e i cinepanettoni) e della commedia musicale (si ricordi “Un trapezio per Lisitrata” di Garinei e Giovannini con Delia Scala e il Quartetto Cetra) e allestisce uno spettacolo spensierato e facile. Spezzettato: un corteo di quadretti comici volti a catturare l’immediatezza dell’applauso e della risata in cui manca l’amalgama di un pensiero di regia capace di far uscire Aristofane dall’anfratto della scena in cui è probabilmente nascosto.

Tullio Solenghi e Giovanna Di Rauso (Mirrina)

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

La scenografia con il trionfo di rosso e giallo zafferano (raro tributo filologico al testo) e sovrastata da una suggestiva Grande Madre e a sinistra da un Totem oracolare (qui l’omaggio alla gag del famoso Trio si compie) è di Andrea Viotti, ideatore anche dei multicolori e colti costumi, ed è il punto di forza della messinscena, nonostante qualche limite di originalità. Punto di forza è pure la squadra degli attori, tutti bravi e dentro la parte. Innanzitutto Elisabetta Pozzi, una Lisistrata inquieta e sagace. L’interpretazione di Elisabetta Pozzi è magistrale sia nelle movenze, quando i suoi passi si appropriano della scena, sia quando è la sua voce forte e piena, commossa e prepotente, a dettare i due registri del testo di Aristofane. Eccezionali sono i due cori. Ai vecchi e alle vecchie Aristofane aveva affidato il climax ideologico: i vecchi rappresentano la nostalgia e il conservatorismo, le vecchie la marginalità arrabbiata e il desiderio di rivalsa delle donne. Sulla scena i vecchi sono Vittorio Viviani (Dracete), Totò Onnis (Strimodoro) e Mimmo Mancini (Filurgo), le vecchie Tiziana Schiavarelli (una Stratillide divertente), Simonetta Cartia (Nicodice), Silvia Salvatori (Calice). I sei attori hanno portato in scena le loro individualità con derive spesso macchiettistiche (soprattutto il napoletano Viviani che si è misurato con Totò, Luca De Filippo e Massimo Troisi) ma hanno sollevato la vis comica e l’hanno incanalata in un godibile espressionismo mimico e fonetico. Solenghi traduce il panellenismo in multilinguismo: su questo ha puntato il suo lavoro di regia. Ogni personaggio viene tradotto in un dialetto: il pugliese, il siciliano di una folcloristica Calonice (Federica Carrubba Toscano), l’emiliano del Magistrato, ossia del più corretto in dovuta quota filologica Probulo, (Federico Vanni), l’abbruzzese, il livornese dell’araldo spartano (Giuliano Chiarello) danno vivacità alla commedia ma non scalano -nel significato dell’operazione- la babele dialettale. La levità attraversa anche i personaggi di Lampitò (una brava Viola Marietti che avrebbe meritato più spazio) e di Mirrina (la valente Giovanna Di Rauso cui poteva essere risparmiato il balletto scontato sulle note di Joe Cocker). Levità è la didascalia di questo spettacolo in equilibrio tra la facilità degli sketch e gli sprazzi felici di genuino teatro. Se la prudente traduzione del testo affidata all’insigne Giulio Guidorizzi ha deviato verso un registro medio contemporaneo che ha tolto alla sfrontatezza del lessico aristofanesco lo scandalo verbale, il monologo della cardatura della lana ha, di contro, tradotto e tradito il testo originale con eleganza, intelligenza e garbo: evviva, l’applauso facile ma spontaneo del teatro all’innesto di “i disperati che ci chiedono aiuto dal mare”! Ed evviva anche alla traduzione dello scioglilingua di Aristofane dei mestieri delle donne nella carnevalesca battaglia degli ortaggi. L’invenzione del personaggio di Didascalio (Roberto Arlinghieri) è un facile tuttavia gradevole cameo di metateatro (ma perché citare Clistene se non si è sciolto il testo greco “sento odore di tirannide d’Ippia”?), mentre un cameo amicale è quello regalato a Massimo Lopez.

Massimo Lopez (Pedasta)

Pedasta arriva in scena bardato da Wanda Osiris, canta “My way” di Frank Sinatra: ma non l’avevamo già visto? E non avevamo già ascoltato tanta della musica usata in questa “Lisistrata”? Di facile approccio è l’attraversamento dai gradini del teatro fin dentro il retroscena di Elisabetta Neri, una trasparente abbigliata Pace (cui la filologia avrebbe preferito Tregua). Lo spettacolo ha un’andatura circolare. Si apre e si chiude con due belle scene corali scandite dalla musica curata da Marcello Cotugno e dalle coreografie di Paola Maffioletti in omaggio al Sud del mondo: la prima è un corteo di figure in fogge arabe e di soldati bambini; l’ultima è un coloratissimo ballo con tutti in scena sulle note dei Dead Can Dance e passi di pizzica e improvviso silenzio e luci spente (interessante il disegno delle luci di Pietro Sperduti) e faro su Elisabetta Pozzi con il piccolo Riccardo Scalia (Leandro, il predestinato alla guerra di domani) che recita un testo di Simone Savognin “Non ho mai imparato le stelle, papà”. Anche qui sempre lo spazio aperto tra la Slam Poetry e il talent televisivo. Tanta televisione, tante citazioni della comicità contemporanea, tanto tributo al cabaret. L’intento di Solenghi era fare del testo di Aristofane un pretesto per omaggiare la comicità? Il pretesto divora il discorso finale di Lisistrata. Peccato: nel discorso c’era sia il personaggio, che dividendo l’uditorio si fa straordinario ermeneuta politico, sia  la donna politica che esibisce un’abilità oratoria degna di un uomo politico e provocatoriamente mostra di poterne prendere il posto. La felice rivoluzione di Aristofane o quella facile di Solenghi? Il pubblico ha consacrato la seconda con un tamburellare di applausi.

Daniela Sessa

Daniela Sessa su Barbadillo.it

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