Per capire la personalità di Franco Zeffirelli, la sua cattiveria insieme col suo genio, occorre andare agli anni dell’infanzia e dell’adolescenza. E senza basarsi sull’autobiografia. Bugiardo com’era, dichiarò a un’amica: “Quella, la scrissi pe’ grulli!”
Provate a immaginare che cosa significasse, nell’Italietta perbenista anteguerra, nascere figlio illegittimo. Con un padre che non ti vuole riconoscere e una madre che non ti vuole in casa. Poi la madre si convince e subito dopo muore. Lui sbattuto come un sacco di patate da un collegio a una zia: l’unica ch’ebbe umanità verso di lui. Fatevi strada nella vita partendo così da sotto zero. Si sviluppa una cattiveria da volpe: intelligenza, fiuto, capacità di dissimulazione. Per esser grande, dice Machiavelli, occorre essere “golpe e leone”. Fu solo volpe, ma questo gli consentì di arrivare in alto a lasciare una grande traccia artistica, insieme con cose di gusto efferato e insincere.
Poi viene il rapporto con Luchino Visconti, del quale fu per anni l’”assistente”: ossia il convivente, oltre che la cameriera. Visconti tendeva a trattare chiunque come la propria cameriera. Ma in un modo che va spiegato. Noi napoletani, i siciliani all’antica, consideriamo la servitù persone di famiglia: ci assumiamo verso di loro tutti gli obblighi che il patronus ha verso il cliens, persino di tipo affettivo. Per Visconti, gli altri erano cose. Altra piaga immedicabile che ha segnato l’animo di Zeffirelli. Lui era un monello fiorentino; quello un parvenu milanese. Com’è andata a finire?
In fondo, lo considerano un Visconti dei poveri. Credo che il tempo abbia mostrato che Visconti era un velleitario, un viziato, che ha fatto qualche buona regia teatrale, pochi films degni di sopravvivere, e quasi solo cose ridicole, ridondanti, frutto di un ricco che si credeva Eisenstein e Stanislavskij. Di lui oggi si può vedere Il gattopardo, per l’altezza del romanzo scelto (chi sa chi glielo aveva suggerito?), per la grandezza degli attori, e perché si era innamorato a tal punto di Alain Delon da andare di là da se stesso, riuscendo a un bel film. Che però vergognosamente tradisce Lampedusa, cambiando il finale di uno dei grandi romanzi del Novecento, perché al genio Luchino tale finale non talentava. C’è Senso: quello, sì, si potrà sempre ammirare. Il resto è cenere. E quanto a recchie, poi, non ne parliamo. Si fingeva un platonico romantico, si chiavava gli attori senza dar nulla loro per il metus reverentialis che incuteva, da padroncino lombardo che si scopa la dattilografa e, siccome era un misto di comunista e milanese piccolo-borghese, non solo si “velava”, ma avrebbe mandato gli altri ricchioni al gulag. Zeffirelli non era un Visconti dei poveri. Era un grandissimo talento. Aveva fatto la gavetta, e conosceva i meccanismi tecnici della regia cinematografica e teatrale molto meglio di quel superficiale enfant gaté che faceva il comunista dall’alto del suo patrimonio d’industriale e si faceva ridere dietro da tutti per il suo conato di dichiararsi discendente dai Signori di Milano mentre era solo rampollo di contadini arricchitisi per aver venduto il foraggio a Napoleone. Nella sua famiglia, poggiante sulla solida ricchezza della “Carlo Erba”, portavano questi nomi propri: Luchino, Verde, Violante, Eriprando… A Napoli e Palermo li avrebbero presi a pernacchi per strada. A Milano si prosternavano. L’argent fait tout.
Alcune regie di Zeffirelli sono fra i capolavori del teatro di tutti i tempi. Quella Bohème della Scala rese palese tutto quanto, nella sua reticenza, Puccini nasconde nel suo capolavoro. Ne fa esplodere gioia e immedicabile dolore. Quel suo Otello, sempre alla Scala, mostra l’incredibile divario fra una meravigliosa Tragedia di Shakespeare e un’Opera ove il vecchio Verdi riesce a indagare lo stesso mistero del Male, inventando il personaggio di Jago che il Bardo di Stratford intuisce senza sviluppare. Quelle due Aide, trionfo mondiale, piene della perversione psicologica che Verdi ha saputo inventare nell’eros inteso solo quale sacrificio, ove il personaggio di Amneris, per la quale l’eros coincide con la volontà di potenza, torreggia. E dove, come pochi altri registi, riesce a render plausibile senza farla stucchevole la ricerca archeologica di Verdi, tradotta in musica come in simbolo mitico. L’Aida del 1976 contiene un mio ricordo personale struggente. Sul podio, uno dei giganti della direzione d’orchestra, Thomas Schippers: già malato a morte, costretto a bere di continuo sul podio qualcosa che lo tenesse su. La critica musicale, per cupiditas serviendi verso il clan Abbado, massacrò Schippers come un abusivo. Non avrebbero osato, nonostante tutto, se non fosse stato morente. Zeffirelli gli stette vicino come un fratello. Forse il suo capolavoro fu Antony and Cleopatra di Samuel Barber: prima assoluta, Metropolitan, 1966. Ridusse egli stesso per il grande Maestro la Tragedia di Shakespeare in un poema drammatico in inglese.
Non parliamo del suo Shakespeare al cinema. La bisbetica domata, Romeo e Giulietta. Meraviglie che resteranno.
Se si guarda alla rete dei rapporti – Visconti, Barber, Schippers, Menotti, Bonynge (il marito di Joan Sutherland, per la quale diva pure immaginò alcune grandi regie –), etc., si vede ch’è tutto un mondo di recchie. I cretini col complesso di persecuzione dicono sempre della lobby gay. Che fesseria! Le recchie, in genere, tra loro si detestano, si invidiano e si combattono. Fu più convivenza che complicità: a parte la turpe servitù verso Visconti, dalla quale si liberò.
Mi odiava. Ho avuto la sventura di fare per quarant’anni il critico musicale, e, con lo sciocco vezzo di dire sempre la mia opinione, ho attaccato alcune regie liriche sue risibili e, soprattutto, demagogiche. Una Traviata all’Opera di Roma durante la quale, nella scena del giuoco del II atto, una proiezione mostrava una Violetta trasfigurata planante con ali d’angelo sulla scena! Era il suo tratto Kitsch. Perché era un retore. Si fingeva cattolico, figuriamoci. Si fingeva un adepto di “Dio-Patria-Famiglia”. Figuriamoci. Ha fatto il parlamentare per Berlusconi, possedendo tutti i motivi per disprezzarlo: avevano troppi tratti in comune, e Zeffirelli doveva fiutarlo, essendo forse più intelligente di lui: con quella antipatica e malevola intelligenza dei toscani. Infine, e qui c’è da scompisciarsi: se c’era una recchia, ma proprio una recchia, non un omosessuale (termine clinico che peraltro mi spiace), era lui. Lo sapeva qualunque pietra della via. Ma da quando aveva deciso di costruirsi un’immagine perbenista, raccontava panzane del tipo: avrei un’inclinazione spirituale ma, da cattolico, non l’ho mai praticata. Si è fatto i più bei ragazzi italiani, dagli anni Cinquanta in poi, etero e omosessuali, preferibilmente etero, e sposati. Aveva un genere di vita così disinvolto che gli ospiti della sua villa di Positano venivano portati dal cameriere nei negozî: questo celebre Dorino, naturalmente una recchia toscana, gabellava di poter procurare sconti favolosi, faceva pagare i pezzi il doppio e pigliava la stecca dai negozianti. Però tutti (non io) in quella villa sono stati invitati: era ospite generosissimo.
L’ultima volta che parlò di me, dichiarò al “Messaggero”: “Isotta è un cretino”.
Che peccato sia stato tanto ipocrita. Inutilmente. In questo, vedo un tratto di schizofrenia. Come vedo un tratto di psicopatia il suo aver affidato la sua Fondazione in mani non degne.
Era falso, era cattivo (e anche molto buono), era intelligente (anche se faceva il cretino). Tutte le parti negative scompaiono con la sua vita. Ci resta il genio.
*Da Libero del 19.06.2019
Già si conoscevano le tendenze del maestro, rivelate più volte pubblicamente dal maestro stesso. Le recchie di destra sono le più raffinate e simpatiche.