Immigrazione. Il corto circuito per i cattolici tra le parole di Ravasi sull’accoglienza, le regole e i confini

Il barcone che trasportava i 596 immigrati (103 donne e 62 minori) e le operazioni con cui ieri le navi della Marina Militare li hanno tratti in salvo, in due diversi interventi a sud di Lampedusa

Per chi si professa cattolico, ricevere con irritazione o addirittura rigettare con disdegno un ammonimento – peraltro espresso con sincera compunzione ed in tono umile – di un Principe della Chiesa quel’è il cardinale Gianfranco Ravasi, non è buon segno. Anzi, potrei addirittura dire che rivela un atteggiamento potenzialmente foriero di perniciose conseguenze. Non si diviene Principi della Chiesa attraverso elezioni democratiche a suffragio universale, bensì attraverso lo Spirito Santo che ispira il Pontefice nella scelta. Perciò, quando il 20 novembre 2010 Papa Benedetto XVI lo creò cardinale, la missione di Gianfranco Ravasi ricevette direttamente da Dio la sua legittimità. In questo senso dicevo che, per chi si professa cattolico, mettere in dubbio l’autorevolezza delle parole di un cardinale, rivela un atteggiamento di inquietudine spirituale quantomeno improprio per chi, più di altri, dovrebbe conoscere ed avere caro il concetto di “gerarchia”. 

 Il cardinale Ravasi, teologo e biblista di prim’ordine – ecco, non proprio uno che confeziona  proverbi per i biscotti della fortuna – a proposito dell’ormai famigerato caso della nave Aquarius, ha espresso un pensiero attraverso una citazione evangelica: «Ero straniero e non mi avete accolto» (Mt 25, 43). Un pensiero di una chiarezza ed immediatezza etica assoluta. Ci sono delle persone che chiedono d’essere accolte? Ebbene, il precetto evangelico non lascia spazio ad intepretazioni o adattamenti: quelle persone vanno accolte, senza dubbi e senza temporeggiare. 

 Apriti cielo!  Quell’ammonizione ha attirato sul cardinale Ravasi tanti strali quasi avesse bestemmiato. Naturalmente non sorprendono quelli lanciati dai non credenti, che sulla questione Aquarius si trovavano in disaccordo con lui, sui quali mi riservo di non soffermarmi. Ad essere significativi sono stati piuttosto quelli lanciati da una parte degli stessi cattolici. Questa parte è la stessa che si inserisce in quella corrente critica invalsa dall’inizio del pontificato di Papa Francesco. In breve, secondo tale corrente l’attuale pontificato indugerebbe fin troppo in questioni sociali preoccupandosi poco di quelle strettamente spirituali, anzi, secondo alcuni addirittura traviserebbe o pervertirebbe queste ultime. Parole forti per dei credenti, che dalla bocca del Papa dovrebbero pendere e non desiderare vederlo pendere. Parole improprie, inoltre, perché pretendono di insegnare la dottrina a chi la custodisce e l’amministra. Parole pericolose, infine, perché rischiano di minare la fede verso la Chiesa, che è un’istituzione gerarchicamente strutturata, dove chi sta in basso, i credenti, dovrebbe ascoltare e farsi guidare da chi sta in alto, alle gerarchie ecclesiastiche, appunto. 

Ora, il cardinale Ravasi, in quanto Principe della Chiesa, sta molto in alto. Quantomeno abbastanza perché i credenti si dispongano a prestare ascolto alle sue parole e tentino di comprenderne il senso. Il fatto che, invece, molti cristiani abbiano reagito alla sua ammonizione evangelica con tanta animosità, rivela una situazione estremamente complessa e problematica, che provo sinteticamente a spiegare. Anzitutto, il cardinale Ravasi non ha bestemmiato, citando il passo del Vangelo di Matteo. Nessuno bestemmia citando passi del Vangelo, se li intende recto sensu e il cardinale Ravasi ha citato quel passo per come quel passo dev’essere inteso: non dare ospitalità a chi la cerca è un peccato. Ritengo che nessun cristiano possa negare quest’evidenza etica, proprio come non potrebbe negare la raccomandazione di offrire cibo a chi ha fame ed acqua a chi ha sete, etc. (vedi Mt 25, 35). Chi non ritiene assolutamente valida quella raccomandazione evangelica, non può considerarsi davvero cristiano secondo coscienza. Che cos’altro si aspettava potesse dire un Principe della Chiesa a proposito della questione Aquarius? «Affondiamo quella barca e lasciamo alla deriva il suo carico di carne»?

Secondariamente, ho sentito molti cattolici ricorrere ad una sorta di giurisdizionalismo di maniera per tutelare le scelte politiche del governo dalla presunta ingerenza del prelato. Anche questo è un atteggiamento tipico di quella corrente critica che ho citato precedentemente. Ora, se un cattolico ritiene che un cardianale non abbia il diritto d’intervenire nelle questioni sociali, si sbaglia due volte: la prima, perché l’etica cristiana, religiosamente ispirata, ha una particolare pregnanza sociale, altrimenti sarebbe inconsistente e velleitaria teoria; la seconda, perché spesso cade nell’equivoco di contestare quando viene detto qualcosa che non gli sta bene e di approvare quando invece la condivide: ma questa possibilità non gli è concessa, in quanto alla sua libertà di coscienza ed al suo intelletto spetta di comprendere la Verità rivelata e la sua giustizia, non di stabilirla. 

 E questo ci conduce infine al terzo aspetto controverso. Pare che la maggior parte degli strali dei fedeli si abbattano sulla Chiesa come istituzione e non sulla religione cristiana. Ma per chi è cattolico, la Verità rivelata dalla religione è depositata nella Chiesa – la “sposa di Cristo” – intesa proprio come istituzione sacra e gerarchica. Perciò, se negare la validità assoluta del passo evangelico non fa cristiani, negare l’autorità della gerarchia ecclesiastica non fa manco fedeli. Né fedeli né cristiani, cioè liberi pensatori, senz’altro, ma sicuramente non cattolici. Tantopiù che non c’è niente di più nocivo per il Cristianesimo dell’atteggiamento di quanti si credono teologi e ritengono di poter interpretare correttamente la Bibbia per conto proprio, sottraendosi alla guida delle gerarchie ecclesiastiche ed arrivando addirittura a contestarle. Ed è curioso che un tentativo in questo senso sia storicamente stato fatto: si chiama Protestantesimo.

 A questo punto del ragionamento, dovrebbe risultare evidente che essere cattolici non significa essere credenti fai-da-te, liberi pensatori – o, piucchealtro, opinionisti – che valutano a loro discrezione le questioni politiche e sociali. Essere cattolici significa prioritariamente essere fedeli ad un’istituzione, la Chiesa, che attraverso le sue gerarchie, cioè il Papa, i cardinali ed i vescovi, conduce i credenti attraverso le asperità del Secolo secondo un percorso di Verità illuminato da Dio. Fuor di metafora, significa che i fedeli non sono legittimati a valutare le questioni politiche e sociali a prescindere dalle raccomandazioni delle gerarchie ecclesiastiche. Altrimenti, il rischio che si profila è quello di un’anarchia valoriale che va a discapito anzitutto dei fedeli stessi, che si ritroverebbero spiritualmente smarriti. In questo senso, accogliere l’ammonizione evangelica del cardinale Ravasi non è solo doveroso, ma soprattutto spiritualmente benefico. 

Messe in chiaro le premesse, vado diritto alla questione centrale. L’ammonizone evangelica del cardinale Ravasi, che richiama al dovere dell’accoglienza dello straniero, pone una seria questione di coscienza a chi, come me, da fedele cattolico-apostolico-romano ritiene grave la questione degli immigrati. È moralmente lecito per un cristiano cattolico considerare con sospetto ed inquietudine il fenomeno migatorio? Ecco, nelle prossime righe vorrei tentare di offrire una risposta a tale questione morale.

 Ancora oggi, dopo tutti questi anni, segnati dal passaggio di centinaia di migliaia di persone e, disgraziatamente, migliaia di morti, nel discorso pubblico si continua imperterriti a parlare di “emergenza” migratoria. Il ricorso a quella parola mi lascia stupito e mi suscita un po’ di perplessità. Generalmente, quando si parla di “emergenza”, “situazione emergenziale” e simili, si fa riferimento alle conseguenze di un problema imprevisto ed estemporaneo: il terremoto che ha colpito il centro-Italia un paio d’anni fa ha prodotto una situazione emergenziale; lo Tsunami che nel 2011 si abbatté sulle coste dell’Asia produsse una situazione emergenziale; il fenomeno migratorio, al contrario, essendo sistemico e non estemporaneo, non  dovrebbe produrre una situazione emergenziale. Se ciò accade, è perché gli Stati che ne vengono coinvolti non riescono ad escogitare una soluzione che sia altrettanto sistemica. I Paesi dell’Unione Europea, infatti, invece che trovare una soluzione che armonizzasse le reciproche difficoltà e possibilità – per dire, è ovvio che l’Italia si trovi in una situazione diversa rispetto alla Norvegia riguardo alla migrazione dall’Africa – hanno fondamentalmente tirato l’acqua al proprio mulino. Anzi, non soddisfatti di curare soprattutto i propri interessi particolari alla facciaccia dell’Europa, alcuni tra loro (Francia, in particolare) hanno anche pensato bene di aggravare la situazione, provocando, più o meno direttamente, la caduta di quei baluardi strategicamente fondamentali per prevenire l’esasperazione del fenomeno migratorio: un esempio su tutti, la caduta e la barbarica uccisione del colonnello Mu’ammar Gheddafi nel 2011, che ha traformato la Libia in una sorta di gigantesco campo di concentramento per i migranti verso l’Europa. 

Nel frattempo l’Italia è stato il Paese che ha sistematizzato in maniera più coerente la sua politica migratoria, assumendo infatti la decisione di sistematizzare l’accoglienza. Mentre altri Paesi alzavano muri e collocavano l’esercito alle proprie frontiere, quasi a volersi chiudere ermeticamente al fenomeno, l’Italia ha fatto ciò per cui la sua collocazione geografica l’ha destinata:  ha fatto da ponte tra l’Africa e l’Europa. Tuttavia, mi rifiuto di credere che tale politica sia stata adottata soltanto per necessità geo-politiche. Al contrario, ritengo che il nostro Paese abbia seguito quanto la propria radicata e tradizionale coscienza cristiana gli suggeriva di fare, disponendosi di buon grado ad accogliere un numero spropositato di immigrati. Così facendo, l’Italia ha giustamente meritato il plauso della comunità internazionale, dimostrandosi ancora una volta faro di civiltà per le genti. In questo senso, l’ammonizione evangelica pronunciata dal cardinale Ravasi, più che come un rimprovero, suonava come un memorandum, come un invito a non lasciarsi sopraffare dalle pulsioni crudeli prodotte dall’esasperazione per come il fenomeno migratorio viene gestito. E qui casca l’asino.

 Perché tanta acrimonia nei confronti degli immigrati? Perché tanta inofferenza verso quanti recuperano persone disposte evidentemente a morire, pur di trovare condizioni di vita migliori? Perché tanta indignazione ed intemperanza quando il Papa e, nel caso specifico, il cardinale Ravasi, richiamano ai doveri del buon cristiano? La risposta è difronte agli occhi di tutti: perché l’ospitalità è solo un aspetto della convivenza tra persone, non estingue certamente tutto l’insieme delle relazioni. Se ospitare chi è straniero, così come sfamare l’affamato, dissetare chi ha sete, etc. sono doveri prescritti dal Cristo per ogni credente, vero è che le persone possono anche modificare il proprio status. Se chi ha sete si disseta, non è più assetato; se chi ha fame si sfama, non è più affamato; se chi è forestiero viene ospitato, non è più straniero, bensì diventa qualcos’altro: qualcosa che si sottrae a questa raccomandazione evangelica. In altre parole, la casistica morale non è monolitica, perché le persone – che sono soggetti morali – non sono monoliti che stanno immobili a lasciarsi levigare dal vento: sono piuttosto creature dinamiche, che tendono a modificare la propria condizione. 

Da questa constatazione vorrei ricavare gli elementi per risolvere la questione morale oggetto del mio ragionamento. I sentimenti ostili verso gli immigrati non nascono, come sostengono certi maîtres-à-penser progressisti, da un pregiudizio razziale né tantomeno dall’irritazione che quei viaggi della speranza provocano ai «cinici ed irresponsabili» cittadini italiani, cattolici compresi. Quei sentimenti ostili nascono, per così dire, sulla terraferma: è qui che gli immigrati modificano il proprio status. L’Italia, negli ultimi anni, ha accolto un numero esorbitante di immigrati, provenienti soprattutto dall’Africa, e lo ha fatto a prescindere dalle ragioni effettive per cui partivano. Che fossero migranti economici, oppure perseguitati politici o religiosi, oppure profughi di guerra, l’Italia si è comportata cristianamente, accogliendoli senza problemi. Potrei dire che nel momento dell’accoglienza, gli scrupoli giuridici sono stati sospesi, a tutto vantaggio dell’imperativo etico. 

 D’altronde, il diritto non può restare sospeso troppo a lungo, altrimenti ne deriverebbe una situazione di caos civile. Superato il momento critico rappresentato dal viaggio della speranza, l’immigrato viene inserito in un contesto civile in cui la sua dignità di persona non è più lesa. La loro permanenza nei centri di prima accoglienza, benché senz’altro possa migliorare, non mette infatti a rischio la loro incolumità – come a dire, chi ha fame, mangia, chi ha sete, beve. L’imperativo etico dell’accoglienza viene rispettato.

Una volta adempiuto questo dovere, la situazione generale si modifica e con essa lo status dell’immigrato. Il sistema civile del Paese d’accoglienza, nel nostro caso l’Italia, perché possa conservarsi ha bisogno che la realtà sociale sia regolamentata, disciplinata, non abbandonata all’improvvisazione dei volenterosi. Nel loro eccesso di zelo, infatti, le molte realtà che si occupano degli immigrati tendono a comportarsi in maniera anarcoide, secondo  come loro ritengono corretto, ma che non necessariamente risulta adatto al sistema civile del Paese nel suo complesso. Tantopiù che, come in ogni altra situazione caotica, c’è inevitabilmente chi se ne approfitta, riuscendo a convertire un’attività sociale in una attività imprenditoriale: in altre parole, c’è chi specula sulla pelle degli immigrati. Infine, si pone anche un altro problema, stavolta inerente agli immigrati stessi. Sono molti e tendono a moltiplicarsi i casi di cronaca, locale e nazionale, che raccontano di immigrati alle volte còlti a spacciare, altre volte a rubare, stuprare, uccidere, e non occorre essere particolarmente perspicaci per vedere con i nostri occhi come molto spesso gli immigrati se ne stiano ad ingrassare nella più  assoluta indolenza. Tutto ciò comporta naturalmente – sarebbe innaturale il contrario – un’esacerbazione dei sentimenti dei loro ospitanti, che si sentono traditi nella loro generosità. 

 Ecco, in definitiva ritengo che non rendersi conto di questi problemi inerenti al fenomeno migratorio, oppure minimizzarli, non significa tanto essere buoni cristiani, ma ottusi cittadini. Il cristiano, infatti, è buono per vocazione e per dovere morale, ed infatti la sua presenza nella società la rende sostanzialmente un posto migliore. Ma le società umane si fondano e sono custodite da regolamenti, norme, criteri ancor prima che giuridici, pre-giuridici, che non possono essere infranti, a meno che non si desideri rovinare le società stesse. Ora, molti di quei regolamenti, norme e criteri pre-giuridici, almeno nei Paesi europei, sono di diretta ispirazione cristiana, perché la morale cristiana non è astratta e disincarnata, ma propedeutica proprio al vivere in società delle persone. Ergo, l’infrazione dell’ordine sociale attraverso iniziative – magari anche ispirate da buona volontà – guidate da criteri individualistici e asistematici, risulta essere non solo un errore civico che un buon cittadino non dovrebbe commettere, ma perfino un errore propriamente cristiano.Se infatti cristiano – e cattolico, in particolare – è il buon senso civile, diabolico è un certo fanatismo etico, tutto vòlto ad assecondare quel solipsismo morale tanto diffuso nelle società senza Dio, al quale fa da pendant non la virtù, bensì l’egoismo.

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Niccolò Mochi-Poltri 

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